Provenzano? “Uno scrittore”. Spatuzza? “Un balordo”. I Ciancimino? “Degli infami”. “Io se sono Riina, faccio Riina e lo faccio bene, stia tranquillo, ognuno deve fare il suo mestiere, il suo mestiere e lo deve fare bene”. Nell’ambito dell’inchiesta sulla strage di via D’Amelio entrano anche le parole di Totò Riina, interrogato dai magistrati nisseni nel 2009 e nel 2010. E, come sempre, le parole dell’ancora attuale capo di Cosa nostra sono piene di metafore, di cose dette e non dette. E, soprattutto, di inquinamento del quadro probatorio che la magistratura sta faticosamente mettendo assieme a vent’anni dalla morte di Falcone e Borsellino. Di conseguenza, la sue parole vanno prese per quelle che sono.
I magistrati della procura di Caltanissetta si recano da Riina in seguito alle dichiarazioni rilasciate alla stampa dal suo avvocato, Luca Cianferoni, che aveva parlato, riportando le confidenze del suo assistito, dell’intervento di “altri” nella strage di via D’Amelio. E comincia con un distinguo, lui non sarebbe stato soggetto della trattativa, ma oggetto: “Io sono stato venduto e a parere mio non è stato Di Maggio” dice Riina. E continua: “Non credo al fatto che l’onorevole Violante possa essere stato contattato nel corso della trattativa. Era un ‘giudice tedesco’, quindi non contattabile”. E ritorna sul suo arresto: “C’è stato qualcuno che mi ha venduto, ma non è certo Di Maggio; il presidente del Csm ha detto che mi avrebbero arrestato e così è stato; io penso che Di Maggio non è stato, poi potrebbe essere stato anche lui. Mancino sapeva che sarei stato catturato, e, dunque, era parte di questa trattativa per il mio arresto”. Sui Ciancimino dice: “Erano loro a fare le trattative, io le ho subite”. Poi, però, dice qualcosa sul solco scavato dalle indagini: “Se io fossi il capo dei capi crede che mi sarei mai rivolto ad uno come Scarantino?”.
Ma il primo luglio 2010, quando i magistrati tornano da Riina, le cose cambiano. Nega che Ciancimino, Provenzano e Cinà potessero sapere dove trascorreva la sua latitanza all’epoca del suo arresto. Quanto alla vulgata che lo vedrebbe “venduto” da Provenzano, Riina dice che “Provenzano ha la colpa di avere voluto fare lo ‘scrittore’, non era certamente capace di farmi catturare”. Mentre è certo che la sua cattura “fu gestita dal generale Delfino, con qualche generica indicazione di Balduccio Di Maggio”. Quanto al signor Carlo/Franco e ai rapporti coi servizi segreti, Riina fa una delle sue uscite: “Se io avessi conosciuto un qualsiasi soggetto dei servizi effettivi o deviati, non sarei Salvatore Riina da Corleone”. E Spatuzza, che nell’interrogatorio precedente era indicato come il depositario dei segreti delle stragi – nel frattempo le sue dichiarazioni erano diventate pubbliche – diventa altro: “Prendo atto che Spatuzza ha riferito di una strategia sulle stragi – spiega Riina – e rispondo: ‘Non creda a Spatuzza che è un povero balordo’”. E conclude: “Ciascun uomo deve essere coerente con sé stesso, sia che svolga le funzioni di Procuratore della Repubblica, sia che faccia il mafioso. Io credo che Provenzano fosse un uomo coerente con sé stesso e mi sento di escludere che possa avere consegnato chicchessia alle forze dell’ordine e men che mai il sottoscritto”.
Ma al Riina-uno del luglio 2009 e al Riina-due del luglio 2010 se ne aggiunge un altro, quello intercettato nel colloquio col figlio Giovanni (anche lui con l’ergastolo alle spalle) del 5 luglio 2010. Il padre parla al figlio degli interrogatori a cui è stato sottoposto. “Ho fatto una difesa di Provenzano – dice Totò u’ curtu – dissi loro: ‘Quel Provenzano che voi altri dite che era d’accordo per farmi arrestare… Provenzano non ha fatto mai arrestare nessuno. Provenzano non è persona di questo. Loro ci si incontravano con i servizi segreti, padre e figlio (Vito e Massimo Ciancimino, ndr). Provenzano no (…) non sapevo e non so che avevo un paesano scrittore (…) ma non si sedeva con gli sbirri per farmi arrrestare, non è paesano mio quello, il paesano queste cose non le fa…’”.
Poi c’è un passaggio importante, in cui Riina sembra per la prima volta sincero: “Giovà, nella storia, quando poi non ci sono più, voi altri dovete dire e dovete sapere che avete un padre che non ce ne è sulla terra, non credete che ne trovate un altro perché non ce ne è perché io sono di una onestà e di una correttezza non comune, io gli dissi l’altro ieri al magistrato nella vita se volesse fare il procuratore, faccia il procuratore e faccia il suo dovere di fare il procuratore e lo faccia bene. Io se sono Riina, faccio Riina e lo faccio bene, stia tranquillo, ognuno deve fare il suo mestiere, il suo mestiere e lo deve fare bene”.
Riina spiega al figlio che da lui non potevano pretendere alcun tipo di collaborazione e che sui rapporti con i servizi la verità la conosce solo lui. E del resto era la sua filosofia dirigenziale: in Cosa nostra le notizie erano gestite su diversi livelli e all’ultimo c’è solo lui. E poi torna a fare il “tragediatore”. “Io il fatto di Borsellino accesi la televisione e lo vidi in televisione, non so niente (…) tuo padre è incredibile, quando tu credi sappia tutto non sa niente, ma come lui tanti di questi signori sono ridotti così. Quasi un po’ tutti. Perchè cosa un po’ tutti? Perché l’ultima parola ce l’ho io, e quindi l’ultima parola non si saprà mai. Ci devi sapere fare nella vita. Quando hai una possibilità, se la sai sfruttare, l’ultima parola non la dici, te la tieni per te, e puoi fare tutto su quell’ultima parola. Gli altri non sanno niente e tu sei anche un po’ avvantaggiatello, questa è la vita a papà, ci vogliono sacrifici ci vogliono, ho avuto la fortuna, la sfortuna di trovarmi lì (in Cosa Nostra, ndr) e sono andato avanti… certamente….si. Non è da tutti, eh?”.