PALERMO – Il direttore di sala del Teatro Massimo resta in carcere. Passa il vaglio del Tribunale del Riesame l’accusa di mafia nei confronti di Alfredo Giordano, arrestato a metà marzo nel blitz dei carabinieri “Brasca” che ha colpito il clan di Villagrazia-Santa Maria di Gesù.
Non si conoscono ancora le motivazione, ma il collegio ha respinto il ricorso dei legali. Un ricorso che puntava sulla mancanza dei gravi indizi di colpevolezza e sulle esigenze cautelari. Secondo la difesa, le frasi registrare dalle microspie piuttosto che svelare l’appartenenza di Giordano a Cosa nostra facevano emergere, solo ed esclusivamente, le sue millanterie. Si sarebbe trattato di episodi datati nel tempo e senza alcun riscontro, neppure da parte di collaboratori di giustizia storici che mai hanno parlato di Giordano.
Diversa è stata la valutazione prima dei pubblici ministeri e ora del Riesame. Secondo gli investigatori, la sua sarebbe stata “una partecipazione consapevole, convinta, addirittura rivendicata” all’organizzazione mafiosa. Davanti al Gip Nicastro e al pm Demontis Giordano aveva definito le sue parole “uno scherzo”, perché per a lui la mafia “fa schifo”.
Le microspie avrebbero consegnato agli investigatori un personaggio diverso. “Trent’anni che combatto con i latitanti – diceva Giordano – a rischiare che… e mi devono trattare come un drogato?! No mi siddia… tu prendi e togliamo tutte cose… parliamoci chiaro… cioè questo lo sfogo… mi permetto di farlo davanti a te…”. Ai mafiosi, poi arrestati assieme a lui, si rivolgeva dicendo “tu sei mio fratello… io sono nelle vostre mani…”. Ed ancora, a Santi Pullarà raccontava un aneddoto del padre, il potente boss Ignazio: “Due sere prima che arrestavano a tuo padre… ci siamo mangiati sgombri e champagne. Io e lui soli eravamo”. E infine si rammaricava per non essere riuscito a recuperare alcuni oggetti rubati alla figlia: ”… ma che mafia siamo, la mafia delle cause perse”.