Scrive il nostro cronista dall’isola: “Mi sono chiesto che fine fanno gli immigrati morti nei naufragi, che restano senza un nome, e che vengono portati a Lampedusa. Ho fatto un giro al cimitero, e li ho trovati. Sono due piccole zone di pochi metri quadrati, con delle croci (sebbene i naufraghi fossero per lo più musulmani) che si tengono in piedi a malapena. Nonostante le croci siano una decina, il guardiano assicura che lì sotto ci sono almeno trenta corpi”.
C’è un cimitero senza nome sull’isola. Dormono, dormono sulla collina, davanti al mare. La pietà della gente ha messo una croce e un fiore. Appartenevano a un’altra religione? Dio sarà più misericordioso delle pignole definizioni degli uomini. Chi va a Lampedusa, torna trasformato. Parti col bagaglio moderato di un viaggiatore occidentale, cauto e compreso delle esigenze della geo-politica. Appena sei lì, il primo impatto è olfattivo. Avverti la puzza della defecazione, del sudore, dei corpi ammassati. La rivoluzione è un odore. Ti penetra nel petto, passa dallo stomaco e scende in un pozzo che sta più giù delle tue convenzioni. Sei partito europeo. Ritorni tunisino. Hai passato la frontiera della normalità.
Sull’avamposto dell’ultimo confine c’è la croce senza titolo, contraddizione in termini di ogni cimitero. Il camposanto è una segnaletica della memoria dolorosa. Senza il cognome non vale. E’ il nome che ti guida verso il posto familiare della sepoltura. E’ la riconoscibilità ultraterrena che consente la continuazione del rapporto. Ai bambini si dice, forse per spaventarli, che in Paradiso saremo una luce ammucchiata. Nessun individuo, solo il chiarore di Dio. E i bambini che sono saggi cominciano a non credere più. Che vale amarci quaggiù, se lassù non ci riconosceremo?
Il cimitero è una speranza. E’ un luogo per immaginare ancora abbracci. E’ l’albero che ti copre, quando serenamente ti abbandoni allo strazio del distacco. Date un nome a quella croce, anche inventato. Chiamate quell’uomo “Mare”, se volete, ma chiamatelo, invocatelo. Gli regalerete la consolazione del ritorno e dell’approdo di un viaggio interrotto. Ha scritto Erri De Luca: “E’ cenere dispersa la partenza. Noi siamo solo andata”.