All’apparir del vero si è interrotta la corrispondenza d’amorosi sensi tra Leoluca Orlando e una porzione consistente di Palermo. Chi ha votato per colui che “il sindaco lo sa fare” ha soprattutto giocato i dadi su una scommessa: basterà un grande amministratore del passato per riportare una comunità avvilita ai suoi minimi valori di splendore? Orlando, intanto, deve dimostrare di essere un sindaco del presente, ha l’ingrato compito dell’uomo del destino, chiamato a premere il pulsante della sveglia per un popolo addormentato. Risaltano gli inciampi in questi momenti di incertezza. Il sogno del riscatto perde pezzi. E la gente mormora. Le nomine hanno seguito il canovaccio della solita politica: soprattutto cooptazioni di fedelissimi, anche perbene, avocati per la vicinanza. In barba a qualunque ipotesi di ricambio, sono tornati sulla scena i protagonisti consunti della Primavera, fornendo la palese dimostrazione di un tentativo sotterraneo di restaurare e di conservare, più che di rinnovare e rischiare.
Il colpo di scena finale si incarna nelle dimissioni del generale Marchetti, uno dei protagonisti designati, il garante di un’operazione difficile di risanamento, secondo le indicazioni dello stesso inquilino di Palazzo delle Aquile. Ugo Marchetti va via, accostando la porta con molta educazione. Tuttavia l’evento rimane colossale, a prescindere dai modi garbati. Perché il magistrato contabile con la divisa da finanziere ha deciso di chiamarsi fuori? Non pare tipo da scoraggiarsi facilmente. Sta male? Desidera tornare a casa? Ha compreso che siamo al dessert, più che alla frutta? Ha finito con lo scontrarsi, suo malgrado, contro la proverbiale corazza di un monarca repubblicano che non ama né i contraddittori, né i dissenzienti? Siamo nel campo delle illazioni. Riceveremo la risposta in una conferenza stampa davvero e inspiegabilmente troppo distante dallo strappo.
Ma è proprio il passo indietro del generale a troncare ogni residuo di luna di miele, ad alzare il volume del mormorio diffuso. Come un cazzotto. Palermo apre gli occhi su un tessuto di macerie. Il pezzo forte della giunta dei miracoli non c’è più. Un atto brutale – simbolico, che sorpassa “Luca” nella sua maestria nel domare i simboli – riporta a terra cittadini, simpatizzanti ed elettori in mistica attesa di un abracadabra. Le dimissioni di Marchetti segnano lo scontento e lo rendono più evidente. Aprono alla confusione. Feriscono l’immaginario di una municipalità che non sa più in chi nutrire fiducia. Le parole della conferenza stampa di mercoledì arriveranno a danno già consumato, l’ultimo di una serie.
La morale della favola, per come si intravvede, narra che non vissero tutti felici e contenti. Non ci sarà un ritorno della Primavera, l’abbiamo capito da troppi segni. Non ci sono superuomini o taumaturghi in grado di curare le ferite con uno schiocco di dita. Ci attendono anni di sofferenza e di oscurità. Giorni di freddo e denti stretti. Siamo usciti dal caldo cono di luce del Festino, con i suoi magnifici paramenti, per piombare nel gelo dei conti, del dissesto, dell’assenza di servizi, nei riti della piccola politica, circondati dal rumore delle porte sbattute o accostate. Ogni pretesa di civiltà, in un contesto tanto terremotato, sarebbe una pericolosa ubriacatura o una bugia criminale.
Meglio così, in fondo. Una presa di coscienza dell’abisso – Marchetti o non Marchetti, Orlando o non Orlando – è l’unico doloroso strumento su cui contare per salvarci da una rete di fraintendimenti. Siamo prigionieri di un’epoca di crisi, qui e ora. La luna di miele è finita. Diamo un triste e consapevole benvenuto alla realtà.