La "Persona" secondo Paolucci - Live Sicilia

La “Persona” secondo Paolucci

Il saggio del semiologo edito da Bompiani.

Sosteneva Luigi Pirandello che la maschera è una sorta di mistero ed è ciò che ci permette di conoscere una persona. Tra volti e voci Per la lingua italiana, la persona è l’individuo; per la linguistica è la categoria in cui si esprime la soggettività, ma, etimologicamente “persona” vuol dire innanzitutto maschera, ossia “personaggio”. Infatti, nel teatro, l’attore è una maschera, interprete di numerosi ruoli che “impersonifica” e che, passando attraverso la propria persona e la propria azione, lo definiscono. Come si diventi una persona attraverso i ruoli che impersonifichiamo, le maschere che indossiamo, i segni che usiamo e i linguaggi che parliamo è la domanda a cui risponde il libro Persona (edizioni Bompiani; 368 pagine; 25 euro) scritto da Claudio Paolucci, docente di Semiotica e Filosofia del linguaggio dell’Università di Bologna e coordinatore scientifico del Centro Internazionale di Studi Umanistici fondato da Umberto Eco e a lui dedicato.
Paolucci parte dalla teoria classica dell’enunciazione in linguistica, secondo cui il soggetto è la prima persona, l’”io” che impariamo a usare per parlare di noi quando, bambini, apprendiamo il linguaggio. Secondo molti linguisti, come ad esempio Emile Benveniste, è attraverso l’io linguistico che si costruisce la nostra soggettività, e cioè quella capacità di raddoppiarsi su noi stessi – a volte chiamata autocoscienza – che fa sì che non solo noi sappiamo qualcosa, ma sappiamo anche di saperla. A questa teoria Paolucci oppone un’altra teoria dell’enunciazione, ispirata a Bruno Latour, secondo cui e-nunciare è inviare un nunzio, un messaggero che parla per noi anche quando siamo assenti. E secondo Paolucci è proprio attraverso la delega a questi nunzi che parlano per noi che si costruisce la soggettività. Paolucci mostra infatti come, contrariamente a quanto si crede, noi non nasciamo con una soggettività: il bimbo molto piccolo non è pienamente dotato di un’autocoscienza: non sa di sapere, non sente di sentire, non percepisce di percepire. Non sa cioè mettersi in scena come un “altro”, come un personaggio tra gli altri personaggi e apprende questa abilità soltanto nello sviluppo, interagendo coi suoi simili. Paolucci individua allora nella capacità strategica di mentire, nella capacità semiotica di mettere in scena mondi che sono alternativi al mondo reale, il punto di svolta nella costruzione della soggettività. È infatti soltanto quando il bambino è capace di pensarsi come un “altro”, personaggio della sua stessa storia, che diventa capace di porre sé stesso a oggetto delle sue stesse riflessioni. È perché sa che se piangerà la mamma arriverà, che piange per finta per averla accanto a sé, rendendo il mondo più vicino al mondo dei suoi desideri. Nell’infanzia si impara a dire “io” e “tu” solo dopo aver sperimentato la fantasia, il gioco di finzione, persino l’inganno. Ed è così che attraverso le maschere della persona si diventa un soggetto. “C’è una terza persona in ogni ‘io’, tanto che la soggettività nel linguaggio è definita nella sua stessa essenza proprio da questa compresenza”, ecco quanto scrive Paolucci.

Se c’è una terza persona in ogni prima persona, se c’è un “altro” in ogni soggetto, se ci sono sempre una maschera e un messaggero che parlano per noi, allora questo ha alcune ricadute anche sulla soggettività nel linguaggio. Secondo Paolucci siamo troppo abituati all’estetica dell’autore, all’abitudine di credere di essere gli autori della nostra parola. Ma in ogni nostro enunciato non siamo solo noi che parliamo: la società parla, il corpo parla, il già detto parla, le norme e gli stereotipi parlano e già Celati diceva che “c’è sempre un pullulare di motivi che vengono da tutte le parti. C’è sempre una tribù di autori che preme dietro alla cosa che stai scrivendo o riscrivendo”. Per questo l’enunciato non è davvero mai il prodotto di un soggetto, bensì è un concatenamento, un assemblaggio in cui pulsano le voci di molte istanze enuncianti. Tra i tanti esempi, Paolucci analizza la trasposizione cinematografica del Nome della rosa del suo maestro Umberto Eco e mostra come, al di là delle intenzioni di Eco che voleva un medioevo inondato di luce, nelle scene caravaggesche e buie del film di Annaud non sono né Eco né Annaud a parlare, quanto piuttosto quella rappresentazione stereotipica del medioevo come epoca buia in cui trionfava il brutto, conforme all’immagine di uno spettatore medio che ne ha letto “critiche troppo frettolose sui banchi di scuola”.

Attraverso l’analisi di serie tv, di film, della canzone Wish you were here dei Pink Floyd e di molti altri testi verbali e non verbali, con questo libro Paolucci mette quindi al centro del linguaggio il “si” impersonale anziché la coppia “io/tu”. Fa dialogare in modo originale l’eredità dello strutturalismo con le scienze cognitive. Costruisce una teoria fortemente innovativa, in cui per soggettività si intende la capacità di diventare oggetto delle nostre stesse riflessioni e così di elaborare pensiero strategico e azione efficace. Pensa all’enunciato come alla coesistenza di diverse voci effetto di diverse istanze enuncianti che costruiscono la nostra soggettività. “Per questo insomma – sottolinea Paolucci – ogni enunciato è un assemblaggio, un composto in cui pulsano diverse voci eterogenee” e queste voci sono spesso impersonali e si annidano dentro ogni nostra parola, dentro a tutto ciò che crediamo provenire dalla nostra persona.

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