«A mmia?!?» Rosario Crocetta, precipitatosi a batter cassa a Palazzo Chigi per strappare un «aiutino» di Letta a tappare l’emergenza finanziaria, dice che non riesce a capire perché, dopo anni di complice lassismo, il commissario di governo ha bocciato proprio il bilancio suo: «Ma se sono i miei predecessori ad aver fatto quel buco!». Fatto sta che, bianca, azzurra o rosé, non c’è verso che la Regione siciliana trovi un suo equilibrio.
Malgoverno – Che l’isola sia stata amministrata per decenni in modo indecente («e ancora lo è», accusano i nemici del governatore) è dura da contestare. Basti leggere un’Ansa: «Il procuratore generale della Corte dei conti in Sicilia, Giuseppe Petrocelli, nella requisitoria per il giudizio di parificazione del rendiconto della Regione, ha sostenuto che nell’ isola “c’è un concentrato di malgoverno nel quale emerge l’esplosione delle spese a scopo clientelare o demagogico”». Ce l’aveva con le «regalie di ogni tipo destinate pressoché esclusivamente a essere utilizzate come meccanismo di formazione e perpetuazione del consenso». Era il giugno 1990. Quasi un quarto di secolo fa.
Parole al vento – Da allora, non c’è presidente scelto prima con una pastetta fra i partiti o più tardi votato direttamente dagli elettori che non abbia giurato d’avere cominciato a risanare i conti. Lo ha fatto da sinistra Angelo Capodicasa: «Pur non essendo condivisibili i toni allarmistici la situazione desta serie preoccupazioni e occorre adottare subito politiche di bilancio, correttivi legislativi e atteggiamenti di governo che siano in grado di riportare sotto controllo la spesa e individuare obiettivi di risanamento per la crescita». L’ha fatto da destra Totò Cuffaro: «Pur proseguendo sulla strada del risanamento e del contenimento della spesa pubblica, questo governo ha dimostrato di saper operare delle scelte importanti per il rilancio dell’economia…» L’ha fatto da posizioni autonomiste Raffaele Lombardo: «Da diverse settimane stiamo operando nel senso di un risanamento dei conti, che dovrà portarci a tagliare sprechi, non solo nel settore della sanità e del personale…»
Bacchettate – Eppure, non c’è stata finanziaria che non sia stata bacchettata dalla Corte dei conti. Anno dopo anno. Si pensi che nel 1998 il procuratore generale, Luigi Maria Ribaudo, denunciò che la Sicilia in mezzo secolo di autonomia speciale aveva «disperso in modo scriteriato e assurdo le risorse disponibili» senza saper «utilizzare gli eccezionali vantaggi che derivano da ciò che gli assegna la Carta costituzionale». Eppure il suo monito fu preso talmente sul serio che l’anno dopo, come denunciò lui stesso, sul libro paga della Regione, tra dipendenti diretti e precari a vario titolo, il numero era salito a «centomila persone». Un numero che nel 2010, invece che calare, sarebbe stato calcolato in 144.148. Una deriva senza fine. Tanto che nel 2008, quando già era esplosa la polemica sui costi della politica compreso il clientelismo, la stessa Corte denunciò che la finanza regionale fosse «in notevole deterioramento» con l’indebitamento «cresciuto dell’83%».
I nodi al pettine – In un contesto come questo lo sapevano tutti che un giorno o l’altro i nodi erano destinati a venire al pettine. Che non era possibile avere 1.874 dirigenti in più, in rapporto ai sottoposti, rispetto alla media del resto d’Italia. Che le frodi comunitarie scavavano in Europa un solco profondo, colmo di diffidenze, nei confronti dell’isola. Che non poteva durare in eterno il giochetto di assumere «clientes» senza concorso perché tanto erano «provvisori» per poi passare alla stabilizzazione di migliaia e migliaia di precari alla volta. Lo sapevano tutti. Eppure ancora nel 2009 saltarono fuori regali di Natale stupefacenti, come fossero anni di vacche grasse: trecento gemelli da polsino e orecchini d’oro da 358 euro al pezzo, «1.500 teste in ceramica dei discendenti dei Borbone» da 115 euro l’uno e una montagna di cravatte di gran firma e altro ancora.
Gioco di prestigio – E tutti a chiedersi: ma come fanno, a far figurare i conti in ordine? E ogni anno, con un gioco di prestigio, finivano tra le entrate enormi quantità di crediti che parevano lì lì per essere riscossi. Centinaia di palazzi e terreni e beni immobiliari pronti a essere venduti e mai venduti. Previsioni di incassi così incredibili da essere ridicoli, come la riscossione di denari dai cacciatori «derivanti dallo smaltimento delle carcasse degli animali». Macché, per anni è passato sempre tutto.
La zavorra – E quando proprio i conti non tornavano (non potevano tornare se la Regione nel rapporto entrate-uscite era secondo la Cgia di Mestre sotto di 1.750 euro pro capite contro un residuo fiscale di 5.775 euro medio dei lombardi e 4.232 degli emiliani) il presidente partiva e andava a battere cassa a Roma. Lo ha fatto Cuffaro e prima di lui Lombardo e prima di loro Rino Nicolosi. Il quale nel 1988, dopo l’uccisione dell’ex sindaco Giuseppe Insalaco, come raccontano Enrico Del Mercato ed Emanuele Lauria nel libro «La zavorra», salì a Roma dall’allora presidente Giovanni Goria. Questi, ricorda un funzionario, «chiese a Nicolosi cosa si potesse fare per arrestare il dilagare della violenza mafiosa in Sicilia. Il presidente lo scrutò, ci pensò un po’ su e poi cominciò il suo ragionamento: per fermare la mafia bisogna migliorare l’efficienza della burocrazia siciliana. E per fare questo bisogna assumere più persone negli uffici della Regione e dei Comuni».
Andazzo – Dice oggi Rosario Crocetta che «un andazzo così non si può invertire da un giorno all’altro» e non è colpa sua se «Cuffaro e Lombardo hanno lasciato buchi da brivido» e giura che lui ha fatto «tagli per 1,4 miliardi» e ha denunciato alla magistratura «le schifezze della Formazione» e insomma «ci vuole del tempo perché un malato possa guarire e lo ammazzi se pretendi che sia sano tutto di colpo». Il commissario di governo però, nonostante il desiderio del governo di trovare una soluzione che rassereni i dipendenti senza stipendio, pare essersi impuntato. Basta tolleranze. Fine. Il braccio di ferro proseguirà nei prossimi giorni. E intanto Crocetta continua a ripetere: «Perché a me? Perché solo a me?».