La straordinaria tradizione giuridica romana aveva finito col fare identificare il nostro Paese come la culla del diritto. La tradizione dell’edictum tralaticium ed il potere affidato alla saggezza della cognizione del Praetor romanus aveva infatti generato quello che, quasi due millenni dopo, fu adottato dai paesi anglosassoni e che oggi definiamo “common law”. A propria volta il corpus juris civilis di Giustiniano aveva codificato l’opera monumentale che costituisce ancora oggi la struttura portante degli ordinamenti dell’Europa continentale.
Da quella grande cultura e dalla sua tradizione deriva tutta la civiltà giuridica moderna. Eppure in alcuni momenti bui della storia, come nell’epoca infausta dei Tribunali dell’inquisizione o, più recentemente, del giustizialismo esasperato di alcune Procure e di alcuni settori politici e di opinione pubblica, non a torto, in molti hanno parlato dell’Italia come tomba del diritto.
La denegata giustizia nel campo civile, come alcuni eccessi in quello penale, hanno autorizzato simili definizioni. Da un lato, la Repubblica è apparsa incapace di tutelare gl’interessi di chi ne ha tutte le buone ragioni, finendo col farne una vittima, dall’altro, ha fatto apparire la pena come una sorta di vendetta, mentre essa dovrebbe essere severa, uguale per tutti, ma, se non volta al recupero, (che in alcuni casi appare obiettivamente impossibile) sempre improntata a principi di equità ed umanità, secondo quanto dettato dalla Carta dei diritti dell’Uomo, che l’Italia ha adottato.
Uno Stato è forte se si dimostra in grado di affrontare qualunque emergenza, anche grave, con la legislazione normale, senza mai cedere alla tentazione di limitare le libertà ed i diritti fondamentali delle persone attraverso norme speciali, che sono ammissibili soltanto in tempo di guerra o di fronte ad esigenze temporanee per fronteggiare forme di terrorismo o di delinquenza organizzata particolarmente pericolose, capaci di penetrare nel tessuto sociale e minarne la tenuta. Tuttavia tali legislazioni devono sempre assumere la caratteristica di rimedi estremi e temporanei con l’obiettivo di sforzarsi di ricreare le condizioni per superare al più presto la fase straordinaria. Quando tali normative diventano permanenti, lo Stato democratico dimostra di aver perduto ed aver preferito la resa.
La introduzione in Italia del cosiddetto regime del 41 bis ha corrisposto ad una necessità effettiva, di fronte alla ferocia degli attentati di stampo terroristico organizzati dalla mafia nel 1992. Una sospensione di alcuni diritti inviolabili della persona durante il periodo di detenzione era quindi comprensibile e giustificata, ma a condizione che si trattasse di una scelta temporanea per consentire all’apparato repressivo dello Stato di organizzarsi adeguatamente e tornare presto alla normalità. Non è stato così. Il temporaneo è diventato definitivo e la nostra civiltà giuridica non ha certo fatto un passo avanti, anzi ha dato una prova di debolezza, non esaltando, come avrebbe dovuto, i grandi successi repressivi e giudiziari di una lotta, efficace ed in grandissima parte vittoriosa, nei confronti della delinquenza organizzata.
Qualche tempo fa scoppiò una polemica in ordine alla proposta della magistratura di sorveglianza di voler consentire al mafioso Provenzano, ormai ridotto praticamente un vegetale, di andare a morire a casa. La scarcerazione non avvenne a causa delle roventi polemiche e, dopo poco, il vecchio capomafia morì. In questi giorni si sta ripetendo il medesimo rituale nei confronti di Totò Riina, indiscusso capo della mafia, certamente anche simbolo di tale oscura autorità. La Cassazione, sulla base di risultanze mediche inoppugnabili, ha rinviato alla Corte d’Appello di Bologna la decisione finale sulla eventuale incompatibilità delle disperate condizioni di salute del detenuto con la detenzione, per consentirgli, come dettano le leggi dell’umanità e, per un Paese cattolico, dello spirito cristiano, di morire con dignità nel proprio letto ed evitare all’Amministrazione l’inutile, elevatissimo costo per il ricovero e la sorveglianza in una struttura ospedaliera carceraria specializzata. È insorta la solita compagnia di giro dei professionisti dell’antimafia, dei nostalgici di Torquemada e del Tribunale dell’inquisizione, di coloro che scambiano legalità con vendetta, mentre in un paese moderno, improntato ai valori della democrazia liberale, lo Stato, (come i suoi giudici) non combatte contro le mafie, ma persegue reati e condanna, punisce, anche molto severamente, non si vendica.
Meraviglia che un Papa, così attento e loquace, non abbia ancora speso una sola parola, se non in difesa dei diritti dell’uomo e della sua dignità umana, almeno della cristiana pietà.
*L’autore è Presidente del Partito Liberale Italiano