Chi ha vissuto il distacco sa quanto sia difficile trattenere la voce di chi è andato via. Come se il passato insieme fosse un sogno, qualcosa che rimane a galleggiare, tra veglia e sonno, con i suoi frammenti, ma che ti sfugge quando cerchi di mettere a fuoco i particolari.
Forse accade di più riguardo alle prime separazioni, quelle che ti stupiscono, perché non le avevi mai provate, perché non c’erano e poi sono accadute.
La voce di Francesco Foresta io me la ricordo, come se l’avessi sentita ieri per l’ultima volta.
Credo che molto dipenda dall’abitudine a salvare, dalla capacità successiva che arriva con la consuetudine, di inserire il dolore nel linguaggio, di maneggiarlo come un elemento che è ineliminabile nell’orizzonte di una vita. A prescindere dalle esperienze personali, un giornalista è chiamato a entrare nel cuore delle persone e deve farlo con devozione, perché, più spesso che la gioia, racconta le lacrime.
Credo pure che quasi tutto dipenda dalla voce speciale di Francesco, dal modo che aveva di usarla come un manifesto di se stesso. Un suono personale che lo rendeva riconoscibile e che non imitava nessuno. C’è chi modula il proprio timbro sulla cadenza di qualcuno, magari serve soltanto all’inizio. Francesco aveva la sua voce che coincideva con lui e raccontava, nelle note, in anticipo sulle parole, una inarrivabile voglia di vivere.
Tutti vogliamo vivere, lui lo voleva di più. Ed era – ascoltarlo – uno squillo mattutino che aiutava nell’affrontare la battaglia di quel giorno. Ogni giorno, per ogni squillo. Tutto, adesso, manca di una voce e dell’uomo che la sventolava come una bandiera.
Oggi piove, in un sabato pomeriggio cupo, e siamo stremati da un tempo che confonde la veglia e l’incubo che vorremmo si dissipasse con l’alba.
Eppure, quella voce conforta, con la sua necessità di essere ritrovata.
Ritorna, quella voce, in un altro giorno di pioggia, come se non fosse mai andata via.
Come se non fosse mai andata via.
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