“Va bene, va bene, io adesso sento il presidente”. E poi: “Solo che io, io per adesso, posso parlare col presidente però perché se l’è presa a cuore, se l’era presa a cuore la questione”. E ancora: “Stiamo ragionando, ma il presidente è orientato a fare qualcosa”. Dall’ottobre del 2011 all’aprile del 2012 Nicola Mancino telefona di continuo al consigliere giuridico del Quirinale Loris D’Ambrosio. L’ex ministro dell’Interno è spaventatissimo di finire coinvolto nell’inchiesta della procura di Palermo sulla trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa Nostra. “Io sono un uomo solo e un uomo solo va protetto”, dice Mancino a D’Ambrosio che da parte sua gli fa notare a più riprese come “la questione” sia stata presa “a cuore dal presidente”. Il presidente sarebbe addirittura il capo dello Stato Giorgio Napolitano, che per quattro anni ha avuto Mancino come vice del Csm.
Nel febbraio del 2012 l’inchiesta della procura palermitana è alle ultime battute. Mancino teme un confronto in aula con l’ex guardasigilli Claudio Martelli e si confida con D’Ambrosio: “Non vorrei che dal confronto viene fuori che io ho fatto una dichiarazione fasulla e quello (Martelli, ndr) ha detto la verità, perchè a questo punto chi processano? Non lo so”.
Il consigliere giuridico del colle a quel punto prova a dare una mano a Mancino. “Qui il problema che si pone è il contrasto di posizione oggi ribadito pure da Martelli… tant’è che il presidente ha detto: ma lei ha parlato con Martelli… eh, indipendentemente dal processo, diciamo”. D’Ambrosio non lo sa ma le sue parole rimarranno incise nelle bobine della Dia, che intercetta Mancino su ordine della procura di Palermo. È per questo che nel maggio successivo D’Ambrosio sarà chiamato dai colleghi palermitani per essere sentito come persona informata sui fatti: perché dava tutti quei consigli a Mancino? Agiva su input di Napolitano? O millantava?
Sulle bobine della Dia infatti sarebbe rimasto inciso anche altro. Due chiamate partite dal telefono di Mancino e in cui si sentirebbe la voce del presidente della Repubblica. Telefonate di cui non verrà mai svelato il contenuto. Dopo che la notizia finisce sui giornali, scoppia il finimondo. I magistrati palermitani hanno infatti inviato l’avviso di conclusione delle indagini ai dodici indagati della trattativa: tra questi oltre a mafiosi come Salvatore Riina e Bernardo Provenzano, anche politici come Calogero Mannino e Marcello Dell’Utri, e lo stesso Mancino, indagato per falsa testimonianza dopo la sua deposizione del 24 febbraio 2012 al processo contro gli alti ufficiali del Ros Mario Mori e Mauro Obinu.
Giorgio Napolitano però non ci sta. Quelle chiamate in cui compare pure la sua voce sarebbero comunque lesive delle prerogative attribuitegli dalla Costituzione, nonostante le intercettazioni non siano mai state trascritte. È per questo che il Quirinale solleva un conflitto d’attribuzione contro la procura di Palermo davanti la Corte Costituzionale. Un’azione senza precedenti. Che di fatto spacca l’opinione pubblica. Nel frattempo il procuratore aggiunto Antonio Ingroia, il magistrato che ha coordinato l’inchiesta sulla Trattativa, annuncia un suo imminente trasferimento addirittura in Guatemala. I veleni però non si placano. Il 26 luglio infatti D’Ambrosio viene trovato morto: a stroncarlo sarebbe stato un infarto. Il presidente Napolitano, nel discorso di commiato, parlerà di “una campagna violenta e irresponsabile di insinuazioni e di escogitazioni ingiuriose” ai danni del suo consulente, che rassegnò le dimissioni (poi respinte) nei giorni in cui venivano rese note le sue telefonate con Mancino.