Le nevi dell'altro anno - Live Sicilia

Le nevi dell’altro anno

Pure quello che c'era intorno a noi non esiste più. E' sparito il cielo blu al confine tra le campanelle di maggio e i bagni di giugno. Una mano l'ha sollevato. Ha tolto via la sua tovaglia infinita dalla tavola.

Bisogna scomporre il puzzle delle facce. Togliere le rughe (sì, sì). Sfilare le orme che il dolore ha impresso con i suoi passi, forme strane in un un lago ghiacciato. Bisogna accendere un falò sotto il mento e aspettare che si sgeli la maschera modellata dagli anni, attimo dopo attimo. Solo se faremo tutto questo, avrà un senso rivederci.

E’ il pensiero di chi si avvicina col cuore sorvegliato e l’allegria circospetta a una cena di vecchi compagni di scuola. Ricordate, compagni? Ci siamo visti per l’ultima volta alla fermata del quattro, un autobus che non esiste più. Pure quello che c’era intorno a noi non esiste più. E’ sparito il cielo blu al confine tra le campanelle di maggio e i bagni di giugno. Una mano l’ha sollevato. Ha tolto via la tovaglia infinita dalla tavola. C’erano le briciole. Sono cadute per terra. Le briciole: in certe notti ci sembra che siano state le uniche cose importanti del viaggio.

Al tempo della scuola c’era l’estate. Finivi a giugno, ricominciavi a settembre. In mezzo, la pienezza di una ininterrotta folgorazione. Amori, ghiaccioli, Super Santos, sabbia tra i pori della pelle, mare senza riposo, i suoi occhi contro il sole, un coniglio che ti guizzava nel petto ed era l’anima, nella sua entrata in società. Tre partite di pallone al giorno, oggi se ne giochi una in tre mesi, ti vanti con tutti. Il corpo nella sua assoluta disponibilità, niente acciacchi né esami. Il corpo inesauribile. Da avere voglia di consumarlo, di regalarlo, di stenderlo al filo bianco di una nuvola. Tanto lui sarebbe rinato. Sempre e per sempre.

La faccia dei quattordici anni era liscia. Un foglio da riempire. Attendeva le sue rughe con stupida impazienza. E non si curava del sole che – così pregavano le labbra attaccate alla faccia – sarebbe durato in eterno. Una corsa veloce, verso la patente, verso l’università, verso il lavoro, quando c’è. Al principio con la voluttà degli affamati. Poi, nei venticinque anni, con un’inquietudine serpeggiante che è diventata marmorea in pianta stabile. E non se ne va, nonostante la felicità, l’amore e il materiale che serve per bruciare gli ostacoli. C’è la consapevolezza che qualcosa è perduto. Che ci manca quell’essere immortali. Non sentirsi. L’immortalità non è uno stato divino. E’ un pensiero terrestre. E’ un sentimento umano.

Così avete organizzato una ‘apericena’ (ahi, neologismo contemporaneo. Negli anni Ottanta non esisteva). Beviamo un po’, ridiamo un po’, dai… Il mestiere di giornalista offre turni massacranti ed è facile non potere essere davvero presenti. Volete mettere il rischio di un ‘quarantenne fuori quattordicenne dentro’ che va a trovare una bottiglia di vino, dei commensali simpatici ed è costretto a disseppellire i pezzi d’oro con una vanga di malinconia? Tu vai. Pensi che sono tutti incredibilmente invecchiati. Un minuto dopo ci arrivi: sei invecchiato pure tu. Lo aveva scoperto un grande poeta: “La mia ombra è l’ombra di un giovane. Ma anche io sono l’ombra di un giovane”. Osservi l’ombra sulla strada, la vedi scattante, pronta al sogno. Invece ti appartiene. Sei invecchiato.

I ricordi. Vengono su. Lottano a cazzotti per inalare un po’ d’aria, sfuggendo alle grinfie della memoria. La prof di matematica che interrogava a sorteggio, estraendo bigliettini numerati da una confezione del Mulino Bianco. A ogni numero corrispondeva il nome di un suppliziando sul registro. Nessuno di noi ha più potuto mangiare merendine, senza rivedere l’espressione ghignante della professoressa in un incubo trigonometrico. E il prof di latino che lo capivi subito se era incacchiato, perché sbatteva le chiavi della macchina sulla cattedra così e non cosà.

E le uscite alla campana dell’ultima ora, proprio dopo matematica, quando si schiudevano le porte di un lunghissimo sabato, seguito da una lunga domenica con una coda di malinconia. Roberto Bortoluzzi decretava la fine di ‘Tutto il calcio minuto per minuto’ e c’erano i compiti, nell’angoscia di un incipiente lunedì. Il respiro di quella ragazza che ci avevi messo tre anni per farle la dichiarazione. Solo per sentirti rispondere: “Vorrei che rimanessimo amici”. Ora le diresti, con una rinnovata sapienza mediatica: “Amici è un programma cretino della tv. Probabilmente sei cretina anche tu e ti fici a rima”.

La cena è stata splendida. Amorevole. Le foto non mentono. C’era un’allegria da anni Ottanta. Qualcuno su fb ha scritto: “Ho visto le foto. Grazie. MI avete insegnato una cosa che finalmente dopo anni riesco ad accettare. Le cose finiscono. I sentimenti fra le persone no. Da questa differenza possono scaturire invariabilmente la tristezza o la felicità. Voi mi avete insegnato che si può esserne felici, pure con uno sprofondo di onesta malinconia, di volti e contatti smarriti. Grazie, compagni di scuola”.
Qualcun altro aveva già scritto nella pagina di un libro francese sfogliato sotto il banco: “Dove le nevi dell’altro anno?”.


Partecipa al dibattito: commenta questo articolo

Segui LiveSicilia sui social


Ricevi le nostre ultime notizie da Google News: clicca su SEGUICI, poi nella nuova schermata clicca sul pulsante con la stella!
SEGUICI