(R.P.) Perché non riesco a comunicare la mia rabbia? Penso alle galere siciliane e vorrei farle saltare per aria, demolirle, tanto sono orrende. Penso al direttore, agli agenti dell’Ucciardone e provo solidarietà come per i detenuti: sono prigionieri. Il rumore del cancello che si chiude alle spalle atterrisce. Anche se sei in visita, quando avverti il tonfo, il tuffo al cuore è garantito. Ti viene in mente che, forse, per una complicata e irridente trama del destino, non uscirai mai più.
Ne ho conosciute di storie di gente che è entrata e in ogni modo ne è venuta fuori. Nel giorno dell’indulto, il castellaccio in piazza sembrava vestito a festa. Un vecchio sbucò fuori. Era il cameriere di una prostituta. “I miei compagni di cella sono stati terribili – raccontò – mi hanno buttato un secchio d’acqua addosso di notte”. Un ragazzo aveva con sé un carretto siciliano fabbricato con gli stecchini, un capolavoro. “E’ un regalo, l’ho fatto io”, borbottò. E corse via come un bambino alla campanella dell’ultima ora.
Nei dintorni delle sbarre, ho incontrato soprattutto poveracci. Avevano sbagliato. Ma erano senza difesa. I soldi sono la barriera più giusta contro il torto nella scena della nostra meravigliosa democrazia. Uno era finito dentro per un furto di teli da mare. Morì in cella, pare per un attacco d’asma. I suoi familiari alzarono le spalle: “Sa, per la causa ci hanno chiesto i milioni. E chi ce li ha?”. Vinti, con le tasche vuote e l’anima gonfia di tristezza. Ecco, deve essere questa la differenza. La gente perbene non crede che i detenuti e i loro familiari siano in possesso di un’anima. Li vedono come “munnizza”, i rifiuti di Palermo infilati in un cassonetto. E si sa che la raccolta della munnizza non funziona. Così tutti sono indifferenti. Io scrivo, immagino quanto stiano patendo le pene dell’inferno “i ristretti” dell’Ucciardone. Scrivo in una stanza con l’aria condizionata. E non riesco a darmi pace. E mi sento anche io un prigioniero.