PALERMO – Un mafioso che riceve una lettera minatoria. Se il racconto di Giovanni Vitale venisse riscontrato ci si troverebbe di fronte ad un paradosso. Il verbale, però, è confusionario. Il pentito del clan di Resuttana non è certo neppure di chi sia stato il destinatario della missiva.
Alla fine fa il nome di un capomafia. Paradosso del paradosso: a ricevere la lettera sarebbe stato Alessandro D’Ambrogio che fino al giorno del suo arresto, nel 2011, era il leader del mandamento di Porta Nuova e probabilmente dell’intera cosa nostra palermitana.
Per prima cosa Vitale dice che i “Mulè c’erano prima di D’Ambrogio”. Massimo e Salvatore Mulè, originari di Borgo Vecchio, avrebbero avuto un ruolo di peso prima di D’Ambrogio e dopo che quest’ultimo fu arrestato. “Non so se era arrivata a loro una lettera, o a D’Amrbogio – mette a verbale il collaboratore di giustizia”. Che lettera? “Una lettera intimidatoria… forse a D’Ambrogio era arrivata”. Il pubblico ministero Caterina Malagoli chiede al pentito di concentrasi sulla “vicenda strana” e Vitale risponde: “Non mi ricordo da parte… tipo che dovevano uscire loro e c’erano dei problemi.. contrasti a Ballarò”.
Di sicuro si tratta di una vicenda tutta da chiarire. Un ulteriore elemento su cui tornare nei prossimi interrogatori del Panda. L’acquisto di uno specifico modello di macchina valse l’appellativo a Vitale, uomo della droga e del pizzo a Resuttana con solidi contatti anche con i boss del mandamento di Porta Nuova.
Chissà se ci sia un collegamento fra la storia raccontata da Vitale e quella di un altro collaboratore, Giuseppe Tantillo di Borgo Vecchio. È stato lui a riferire che Tommaso Lo Presti dal carcere era stato categorico. Il reggente del mandamento di Porta Nuova aveva incaricato il suo successore, Paolo Calcagno, di “mettere fuori famiglia Salvo Mulè” (considerato l’uomo forte a Ballarò fino al suo arresto avvenuto nel dicembre 2015) perché si “era montato la testa”.