L'Immacolata, le carte e... | Le ultime sere della felicità - Live Sicilia

L’Immacolata, le carte e… | Le ultime sere della felicità

Il ricordo di un otto dicembre speciale.

Garofalo all'occhiello
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6 min di lettura

Come ogni anno, l’otto di quel dicembre di fine anni ‘70 si inaugurava il filotto di giocate natalizie. Già da alcuni giorni le vetrine dei negozi e qualche luminaria augurale proponevano con insistenza i motivi del rosso e dell’oro, mentre i marciapiedi vicino al centro erano sempre più invasi da alberelli di ogni misura e da scatoloni debordanti di arredi natalizi ancora da sistemare sulle bancarelle.

A casa degli zii era già uno sfaccendare frenetico per il primo dei festosi e magnifici cenoni di prammatica, con tavoli allungati, accostati l’un l’altro, di altezze e larghezze mai coincidenti, coperti da rossi tovagliati; poi candele, canestri pieni di frutta secca, le posate “buone”. “Stasera siamo assai”, bofonchiava nonno Paolo, falsamente infastidito, perché intimamente felice di vedere la famiglia riunita, a casa sua. I bambini pregustavano eccitati l’aria festosa che di lì a poche ore si sarebbe respirata in tutta la casa, correndo continuamente e soffermandosi solo per pochi istanti, incantati, davanti allo sfolgorio intermittente dell’albero, già sistemato nell’angolo accanto al balcone e acceso dal pomeriggio.

Gli addobbi di allora erano palline delicatissime, della consistenza appena appena più marcata delle bolle di sapone; qualcuna era già rotta, per qualche incidente incorso durante le operazioni di ricostruzione annuale e per via di certe incaute spintarelle da parte degli ospiti più piccoli. Ma bastava rivoltare l’addobbo in modo da mostrare la parte “buona” e nascondere il retro incidentato, e tutto tornava a posto.

Come l’anno scorso e quello ancora prima. L’arrivo degli ospiti era un tutt’uno concitato con il loro sedersi a tavola. L’ingresso trionfale delle “sfincette fritte” inaugurava successive prelibatezze; sul grande vassoio venivano servite le superstiti delle incursioni dei bambini in cucina, predatori golosi, dai palati ustionati. Qualche giorno ancora e sarebbe stato il festival delle arancine e della cuccìa, nel giorno di Santa Lucia. Come l’anno prima, e i dieci, e i cento ancora prima.

Alla fine del cenone, mentre ancora il cesto delle noci era sul tavolo e il panettone in via di affettamento, si distribuivano le tabelline della tombola: i giochi avevano inizio. Ognuno aveva davanti a sé tre o quattro tabelline e una manciata di lenticchie; guai a scuotere il tavolo che si scompigliava tutto. Così, nel salone grande si avvicendavano tombole, e settemmezzo, e improbabili “cucù” e “mercante in fiera”; l’unità di misura di tutti i giochi era la moneta da cento lire. Gianfranco, il cugino più grande, aveva un bel darsi arie da smargiasso nei confronti dei più piccoli, dall’alto dei suoi diciassette appena compiuti. Loro, i piccoli, in un misto di odio, ammirazione ed emulazione, lo osservavano e ridevano: un giorno anche loro avrebbero voluto essere alti e “tochi”, come lui. In mattinata il ragazzo aveva pure goduto, da primo nipote maschio, del regalo più prezioso: la nonna, tirando fuori le sue fragili mani rosse e morbide da sotto la “sciallina”, gli aveva sganciato centomila lire, molto ma molto più degli altri.

In una stanzetta attigua, più piccola, un tavolo verde era in procinto di ospitare giochi di ben altro livello. La luce era bassa sul tavolo; al centro il piattino, le carte erano lì, cinque giocatori in brillantina e dopobarba si erano già seduti da un po’; per uno di questi si celebrava un’iniziazione. Mirko, il piccolo di casa, bisbiglia all’orecchio di qualcuno “Gianfranco si è seduto al tavolo del poker!”, e la notizia si diffonde in modo epidemico. L’andare avanti con i giochi a poco a poco stanca; qualcuno già mostra segni di sonnolenza, abbandonandosi lungo sul divano; le donne, lasciato il tavolo delle tombole, godono della visione di qualche classico in TV a colori, privilegio di pochi. Al tavolo verde, invece, la tensione cresce, impalpabile.

Davanti alle postazioni dei giocatori ci sono mucchietti di fiches distribuiti in modo vario. Uno dei giocatori, un certo Gianni, un cugino lontano, ha uno sguardo freddo, cinico, impenetrabile. Davanti a lui il mucchietto è un po’ più abbondante. Vince. Gianfranco ha ingaggiato con lui una specie di duello personale; gli altri osservano con distacco. Il gioco è diventato forte: a muoversi sono soprattutto i gettoni grandi, quelli con più zeri accanto all’uno. Gli adulti sono avvezzi a queste mosse; il ragazzo non vuole sembrare da meno, ma agita le gambe in modo frenetico, sotto il tavolo.​ Le ore della notte sembrano rimpicciolire.

Quando i rintocchi del pendolo sono diventati davvero radi, nella stanza c’è freddo, un po’ per gli sguardi glaciali dei giocatori, un po’ perché il balcone è aperto a metà, per fare entrare aria fresca a sostituire il fumo intenso di mille Marlboro. Il pallore dei giocatori è d’esperienza; quello del ragazzo, di paura, mista all’inquietudine del puledro che scalpita. Gianni ha cominciato da qualche minuto una spietata strategia d’attacco; il mucchietto di fiches di Gianfranco si impoverisce. Verso le cinque, tre giocatori su cinque hanno abbandonato quell’ultimo giro. Il ragazzo, voce rauca, dice “vedo”, gettando sul piatto l’ultima fiche grande. Gianni cala una scala reale; l’ultimo piattino viene rovesciato sul suo gruzzolo già consistente. Il silenzio, adesso, è terreo. “Che fa, stacchiamo?” dice uno dei cinque. Chi tace, acconsente. Fine.

Sull’uscio è un silenzioso infilare cappotti e sciarpe; all’appello manca Gianfranco. Il piccolo Mirko lo scorge affacciato al balcone, a osservare la strada attraversata da pochissime macchine, il freddo non lo scompone. Ha le mani al volto; piange. Dopo pochi minuti sono tutti giù, davanti al portone. Mentre tutti si salutano, Gianni, quando sembrava che si fosse congedato già, fa un cenno a Gianfranco che, senza che nessuno se ne accorga, lo raggiunge dietro l’angolo della strada. Il piccolo Mirko sbircia, di nascosto, la scena. Gianni sorride al ragazzo, prendendolo sottobraccio; lui ascolta a testa bassa. Non si capiscono le parole; certamente il tono e il dito alzato del più grande, in tono di rimprovero.

Gianni, contrariamente alle apparenze, è un buono, e forse ricorda i suoi diciassette, forse ha già conosciuto intraprendenza ed incoscienza, forse chissà. Sta di fatto che dopo un po’ tira fuori da una tasca una banconota da centomila, poggiandola sul palmo della mano di Gianfranco, e a voce più distinta dice: “Sta attento, non fraintendere: ciò che ho vinto, ho vinto. Questo è solo il mio regalino di Natale per te, nient’altro. Auguri, e in gamba!”. Poi saluta il ragazzo con un buffetto sulla guancia e va alla macchina posteggiata lì vicino.

Adesso il ragazzo va a casa, a piedi, a passo svelto. Un po’ il sonno, un po’ lo stordimento della notte in tensione, ma ha in mente solo sguardi: quello di Gianni, che lo aveva smentito; quello della sua Monica – il braccialetto a Natale potrà ancora regalarglielo! – ma soprattutto gli occhi dolci della nonna, che gli aveva fatto un regalo che per poco non finiva in aria, insieme al fumo di mille Marlboro. È quasi l’alba; un altro paio di metri e giungerà a casa; ancora un altro paio, o forse un po’ di più, e sarà davvero diventato grande, finalmente. Ma non adesso, non stanotte, non ancora.

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