Non lo vogliono a Padova. Non lo vogliono a Corleone. Nessuno vuole Salvuccio Riina, figlio del vecchio capo dei capi, reduce da otto anni e dieci mesi di carcere per associazione mafiosa. Non lo vogliono in Veneto, dove avrebbe dovuto lavorare in una Onlus. Non lo vuole il sindaco di Corleone Antonino Iannazzo, che definisce Riina junior “persona non gradita”. Perfino Totò Riina è convinto che non ci sia un futuro per suo figlio a Corleone: “Gli voglio consigliare, se potesse andare dalle parti di Firenze, perché al paese non glielo fanno stare”.
Certo, il percorso di Salvuccio Riina sembra segnato. Segnato dal cognome, segnato dalle condanne, dalle amicizie, dalle conversazioni e dalle convinzioni. Salvuccio Riina è nato dentro la mafia, ha incorporato i valori e i discorsi di Cosa Nostra. Forse sogna un futuro dentro la mafia siciliana, magari lontano dalla Sicilia, ma comunque all’ombra del mito fosco e tenebroso di suo padre, a lungo dittatore della Cosa Nostra siciliana.
Riina non è un giovane che sconta ingiustamente il peso del suo cognome, paga invece il prezzo di voler raccogliere l’eredità mafiosa di suo padre. È comprensibile che non sia “persona gradita”, né al suo paese né altrove. Ma il profilo di Riina junior, così ingombrante, rischia di nascondere invece una questione difficile e spinosa, sulla quale si gioca il futuro non solo di molti giovani, ma l’essenza stessa della battaglia antimafia.
In Sicilia, così come in Calabria e in Campania, ci sono molti figli e figlie di mafiosi. Alcuni portano i loro cognomi con arrogante spavalderia. Altri invece vi si dibattono dentro, con sofferenza e con disagio. Molti anni fa un magistrato disse che i figli dei mafiosi dovevano disconoscere i padri, se volevano far parte della società civile: era una richiesta eccessiva e feroce. Adesso, alcuni di queste ragazze e ragazzi hanno imboccato una strada tortuosa, ma possibile: si può amare un padre, sia pure mafioso, ma nello stesso tempo si possono prendere le distanze dal fenomeno mafioso. Tanto per parafrasare un concetto cattolico: condannare il peccato e non il peccatore.
Naturalmente, è un processo spesso silenzioso. Proprio per questo non lascia traccia. Lascia invece traccia indelebile il cognome. Conosco il figlio di un mafioso detenuto, un ragazzo di vent’anni cresciuto con il padre in galera, lontano da ogni affare e amicizia losca, che non può lavorare come operaio in nessuna impresa edile perché le norme antimafia entrano in allarme rosso non appena leggono il suo cognome. Ho incontrato una ragazza di Rosarno, nipote di un boss della ‘ndrangheta, che a sedici anni sognava la divisa della guardia di finanza, finché qualcuno le ha spiegato che quella parentela scomoda non le consentirà mai di indossare un’uniforme dello Stato. Al liceo Piria di Rosarno, Annarita Molè, diciassette ani, figlia di un boss ucciso tre anni fa a Gioia Tauro, ha raccontato la sua storia in poche parole: “Sono la figlia di Rocco Molè, un uomo che amerò sempre perché era mio padre, un uomo che ha sbagliato ed ha pagato con la vita. Io, mia madre e le mie sorelle scontiamo pene che abbiamo ereditato, ma che non ci appartengono; sentiamo alcuni nei pubblici comizi dire che dobbiamo essere emarginati e ghettizzati ma non è giusto, ognuno deve avere una seconda possibilità”.
Una seconda possibilità. Forse bisogna trovare il modo di strappare questi ragazzi alla condanna del loro cognome. Salvuccio Riina ha scelto di essere Riina e per questo è indesiderato. Ma se lasciamo tra gli indesiderati anche chi cerca di cambiare la propria vita, rischiamo di ritrovarci con migliaia di giovani senza speranze: un esercito senza via d’uscita, destinato a consegnarsi alla mafia.