L'incidente di Biagio e Giuditta, parla la sopravvissuta

L’incidente del ‘Meli’: “A braccetto con Giuditta, poi quella macchina..”

Biagio e Giuditta. La drammatica testimonianza di una sopravvissuta

PALERMO- Piove su piazza Croci: è un venerdì di novembre, nel 2024. Le foglie secche sono un manifesto scontato dell’autunno. Ombrelli e persone alla fermata dell’autobus. Dove adesso c’è una banca c’era il liceo classico ‘Giovanni Meli’. Rita incede con un passo reso titubante dalle emozioni. La stretta di mano si trasforma in un abbraccio, tra chi parla e chi ascolta, per la tenerezza di essere stati, in classi diverse, compagni di scuola.

Rita osserva la fermata. Con la scarpa calpesta una porzione di marciapiede. “Eravamo proprio qui – dice – io e Giuditta, a braccetto. Ho visto piombare la macchina che ci ha travolte. Io mi sono salvata”.

Quei ragazzi alla fermata

Venticinque novembre 1985, lunedì. Un salto indietro di trentanove anni. Il suono della campanella. I ragazzi che sciamano, ridendo, verso gli autobus che li avrebbero riportati a casa.

A Palermo c’è la guerra, nel frattempo. La mafia uccide e assalta. I giudici vivono una esistenza prigioniera di palazzi, neon e mezzi blindati. Qualcuno, sui giornali, scrive che le sirene delle scorte sono fastidiose.

Quel giorno Rita nota una macchina, preceduta dal caratteristico suono, all’orizzonte. Non ha quasi il tempo di rendersi conto. Dopo una carambola, l’auto che protegge i giudici Paolo Borsellino e Leonardo Guarnotta, protagonisti del pool antimafia in procinto di affrontare il maxi-processo a Cosa nostra, sbanda e si schianta sulla fermata come una palla di cannone.

Biagio e Giuditta

Biagio Siciliano, quattordicenne, ragazzo dell’allora ginnasio, nella ‘Quarta D’, muore subito. Maria Giuditta Milella, diciassettenne, ragazza del liceo, nella ‘Terza B’, morirà qualche giorno dopo in ospedale. Rita Marulli, la voce narrante che ascoltiamo, compagna di classe e di banco di Giuditta, trentanove anni dopo, per la prima volta, racconta.

“Era l’anno degli esami di maturità ed eravamo un po’ spaventati, ovviamente. Io e Giuditta eravamo inseparabili. Lei, come testimoniava il suo viso, era una ragazza dolcissima. Studiavamo insieme quasi ogni pomeriggio, nella sua casa luminosissima di via Emilia. Chiedevo sempre, con un po’ di timidezza, un bicchiere d’acqua”.

In quell’appartamento – fino all’ultimo respiro di Francesca, la mamma di Giuditta e l’ultima sopravvissuta, tra i genitori, a chiudere gli occhi – la stanza della bambina rimase intoccata. Così la chiamava sua madre. Così la chiamava Carlo, suo padre. Titta la chiamavano, prima che l’incidente del ‘Meli’ cancellasse i sogni, il presente, il futuro.

Biagio viveva a Capaci con i fratelli, con papà Nicola, mamma Maria Stella e con il gatto Raimondo. Nella tarda mattinata del 25 novembre, il maresciallo bussò alla porta, recando con sé una comunicazione impossibile da recapitare. Biagio Siciliano era un ragazzo gentile, sensibile e taciturno. Suo fratello Vincenzo lo ha descritto così: “Era un papà aggiuntivo”.

“Ci tenevamo a braccetto”

“Io e Giuditta – racconta Rita in questo venerdì di pioggia del novembre 2024 – eravamo al terzo banco della fila centrale. Siamo uscite da scuola. Eccoci alla fermata. Ci tenevamo a braccetto. Ho notato la macchina a tutta velocità. Ho appena avuto un secondo per dire: ‘Come corre…’. Ed è successo l’inferno”.

“Ho aperto gli occhi, dopo lo svenimento. Ero sdraiata sull’asfalto. Non sapevo se viva o morta. Ricordo solo un uomo con il mitra che gridava. Non sapevo dov’era Giuditta. Ci hanno portato in ospedale. Io non l’ho incontrata mai più”.

Rita si mette davanti alla lapide in memoria, posta lì dalla Cna di Giuseppe Glorioso, una persona dotata di cuore. Solo così accetta di essere fotografata. Di spalle.

“Il ritorno in classe fu terribile. Abbiamo sistemato i banchi a ferro di cavallo, per non pensare alle assenze, al vuoto. Ci siamo difesi così. Ero stata ferita, con molte fratture, risento ancora dei postumi. Altri compagni erano in coma. Per diversi pomeriggi sono tornata a casa Milella. La dolcissima signora mi dava il solito bicchiere d’acqua. Poi, non ce l’ho fatta più”.

Un altro abbraccio segna il congedo, sul confine del trentanovesimo anniversario dell’incidente del liceo Meli. Piove di meno. Qualcuno chiude l’ombrello. Le foglie secche si ravvivano con un timido raggio di sole. Le cicatrici non passano. Una poesia che studiavamo recitava: “Piaga per allentar d’arco non sana”. Petrarca sapeva il fatto suo. Se sei stato colpito da una freccia, con qualunque nome, soffri. Perché le ferite non passano. No, le ferite non passano. Proprio come l’amore.


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