L'ipocrisia di un insulto - Live Sicilia

L’ipocrisia di un insulto

Perché il ragazzino ha dato del “gay” al compagno e non ha attinto a più coloriti vocaboli? C’è da pensare che le istruzioni al ragazzino sboccato su come ammazzare moralmente il prossimo senza apparire cafoni (pardon: tasci o “out”) siano arrivate da menti più mature e istruite.

La prof condannata
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PALERMO – Palermo, a scuola. Un alunno di undici anni dà del “gay” a un suo coetaneo. Difficile stabilire come mai non gli abbia detto “frocio”. Che è più diretto. Più verace. Meno ipocrita. E vanta più lunga tradizione.

E’ possibile – ma non accertato – che sia accaduto. Così come è possibile – ma non accertato – che tra i due semiadolescenti sia accaduto dell’altro, e che l’attribuzione “gay” rappresenti l’apice di una camminata verso il calvario del bullismo; altra parola alla moda per ingentilire il più dispendioso (in termini di estensione) e doloroso (in termini di vessazione) “quando il compagno di classe più grosso e scafato se la piglia con quello più minuto e strano”.

Laddove l’idea di “stranezza” può racchiudere l’universo mondo: si va dal colore di una maglietta di sottomarca indossata in aula, al silenzio dello “strano”, fino a chiamare in causa il capo più intimo di cui si veste l’individuo in via di crescita: l’indole. Anch’essa soggetta a corollario di attribuzioni, ma utili, stavolta. Indole introversa o riflessiva, indole mite, indole incline alla lettura (addirittura!), all’osservazione o alla scoperta taciturna di un mondo dove ormai si parla tanto per dimostrare di esistere. E dove più spesso si urla, come fanno “alla televisione”.

Ma tornando alla parola incriminata: perché “gay” e non frocio, o finocchio, o “matello”, o “caligno” o, ancora, “arruso”? C’è da pensare che le istruzioni al ragazzino sboccato su come ammazzare moralmente il prossimo senza apparire cafoni (pardon: tasci o “out”) siano arrivate da menti più mature e istruite. Per esempio, io non ho mai sentito ululare a qualcuno del “Grande Fratello” o nel corso di un qualsiasi “Pomeriggio cinque” la parola “garruso”. Si dice “gay”. Il sentimento che poi anima l’improperio dipende dalla modulazione di tono. D’altronde, si può dare del “genio” a qualcuno facendolo sentire un cretino. Ma chi difende la sensibilità dei propri figli più vivaci (quella dei propri, non degli altri) è troppo impegnato, forse, a cazziare l’educatore cattivo.

Ho un nipote di due anni e mezzo – quasi tre – al quale ho insegnato qualche parolaccia. “Parolaccina”, non pensiate al peggio. C’è chi ritiene che io sia uno zio degenere, ma il bambino mi adora e insieme ci siamo fatti delle grasse risate nello scoprire che una cosa proibita, detta con allegria e ironia, è fonte di sconfinati buonumori nonché scuola di autoironia.

Certo, la professoressa che ha ecceduto in metodi educativi e gessetto – condannata per aver inflitto al “gay-sayer” un dettato alla lavagna nel quale si autodefiniva “deficiente” – avrà abusato del proprio ruolo. Mi permetto di regalarle un consiglio. La prossima volta, prof., ordini di scrivere “sono uno sciocchino”. O “un monello”. Ma forse è meglio: “mattacchione”.

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