E due. Ancora un altro presidente della Regione, il secondo in meno di un decennio, governa la Sicilia nella doppia veste di presidente e di imputato per fatti di mafia. Era già successo con Salvatore Cuffaro che da imputato per favoreggiamento a Cosa Nostra governò l’Isola, da imputato fu rieletto a palazzo d’Orleans, da presidente fu condannato in primo grado, da condannato ricevette la fiducia della sua maggioranza all’Ars e solo dopo una foto inopportuna con troppi cannoli e troppa allegria fu costretto a dimettersi.
Adesso tocca al presidente Raffaele Lombardo governare da imputato per concorso esterno in associazione mafiosa. È già cominciata la ridda delle controverse dichiarazioni: un giorno sembra che Lombardo annunci dimissioni prima ancora della pronuncia del giudice, il giorno dopo pare emergere la volontà del presidente di resistere al processo fino alla prova provata di innocenza. È verosimile che nei prossimi mesi il dibattito non potrà più ignorare i termini giudiziari di una polemica che segnerà inevitabilmente la vita del governo regionale, i suoi atti e i suoi effetti.
Resiste comunque l’impressione di un presidente azzoppato, come si dice in gergo. Ed è evidente che questa situazione conviene a molti: agli oppositori che possono agevolmente attaccare un presidente vulnerabile, agli alleati e ai sostenitori che possono fare pesare di più il proprio appoggio.
Ma queste sono manovre di corridoio, operazioni di alchimia politica che interessano soltanto agli stregoni e agli apprendisti stregoni del palazzo. Piuttosto, interessa capire come e perché per due volte consecutive la massima istituzione regionale sia al centro di delicate indagini concluse per Cuffaro con una condanna definitiva e per Lombardo con un’imputazione coatta.
Un pessimista siciliano dovrebbe pensare che l’inquinamento mafioso è ormai talmente diffuso e pervasivo che un politico in Sicilia finisce facilmente per stringere mani e accordi con uomini di Cosa Nostra o comunque di area mafiosa. Ma questa è una spiegazione semplicistica, che riduce l’incontro tra il politico e la mafia a un incidente di percorso, a un fatto episodico, ma nello stesso tempo quasi ineluttabile. Dobbiamo rassegnarci a questo? Dobbiamo concepire l’azione politica di un governo attraverso le pieghe e le tappe dell’azione giudiziaria?
Il professor Giovanni Fiandaca, riconosciuto come uno dei maggiori giuristi in materia penale e soprattutto sulle norme antimafia, sull’edizione palermitana di Repubblica dell’11 aprile, dopo aver letto le 64 pagine del provvedimento del gip nei confronti di Raffaele Lombardo ha formulato i suoi dubbi “in punto di diritto”, ma nello stesso tempo ha individuato l’esistenza di un quadro indiziario che, secondo il docente di diritto penale, “conferma un modello di relazioni tra la mafia catanese e i fratelli Lombardo inquadrabile appunto nella classica tipologia del patto di scambio politico-mafioso”.
Al di là della sempre valida presunzione di innocenza, è possibile che la politica ormai sia così indietro rispetto al resto della Sicilia? Settori tradizionalmente esposti alle contiguità come l’imprenditoria hanno messo in piedi strumenti di autocontrollo e di autocensura, associazioni di commercianti hanno sperimentato tecniche di resistenza al racket mafioso, gruppi di cittadini hanno costruito reti di consumo responsabile e mafia-free. La politica invece non riesce (o non vuole) costruire metodi di autotutela rispetto al fenomeno mafioso. È chiaro che singoli politici possono avere interesse a coltivare relazioni con la mafia, ma è ormai evidente che questi rapporti si risolvono sempre più spesso nella fine per mano giudiziaria di carriere e ambizioni. Un tempo si diceva: la mafia conviene. Ma quanti altri presidenti della Regione dovranno finire sotto indagine prima di capire che ormai la mafia è sempre più sconveniente?