Mi onoro dell’amicizia di un luminare romano, uno di quelli cui spesso si rivolgono per “secondi pareri” i pazienti siciliani (o i loro parenti) seguaci della teoria secondo cui “il miglior medico della Sicilia è l’Alitalia”. Con la sua consolidata esperienza , il mio illustre collega ha ormai imparato a riconoscere il modo d’essere di noi Siciliani. E lo descrive con quella tipica ironia romanesca che ritroviamo nei film di Sordi o nei sonetti del Belli. E quando mi chiama per rimandarmi indietro qualche paziente, è solito sussurrare al telefono una frase che racchiude in sé un testo di antropologia sociale: “Voi Siciliani vi fate raccomandare pure pe annà a comprà er giornale”.
Non ho mai sciacquato i miei panni nel biondo Tevere. E dunque posso solo usare un termine siciliano per esprimere questa nostra attitudine, questo vizio atavico. Il termine è: “parroccianesimo”. Il “parrocciano”, ossia “soggetto appartenente alla stessa parrocchia”, si distingue in: beneficiario, intermediario ed erogatore. Il parrocciano beneficiario (o questuante) è colui che gode (o crede di godere) dei benefici del parroccianesimo. Egli si sente rassicurato dal fatto che, indipendentemente dal motivo e dal peso della segnalazione (o “parlatina”), non sarà trattato come tutti gli altri. Cioè, invariabilmente male. Il parroccianesimo può essere “diretto”, come conseguenza di diretta conoscenza con l’erogatore, oppure “indiretto”. In questo ultimo caso, il beneficiario si dà da fare per trovare nella cerchia delle conoscenze un parrocciano intermediario con la tipica domanda: “Ma a ‘ccu avemu ‘dduocu ?”. L’intermediario rassicura il beneficiario con il canonico “nun c’è pobbrema: vacci a nome mio” e si premura di contattare l’erogatore con una telefonata o un biglietto autografo che in genere inizia con la formula di rito: “Il latore della presente è persona a me molto cara”. Anche se in molti casi non l’ha mai vista prima.
Quando l’atto di parroccianesimo giunge felicemente a compimento, è buona norma che il beneficiario manifesti la sua gratitudine. Nelle forme di “parroccianesimo diretto”, l’erogatore ne gode i benefici di ritorno, mentre in quelle di “parroccianesimo indiretto” la gratitudine del beneficiario va espressa all’intermediario più che all’erogatore. In questi casi, il vantaggio per l’erogatore consiste in una “obbligazione di parroccianesimo” a scadenza illimitata emessa dall’intermediario stesso. In funzione del ruolo sociale, la gratitudine del beneficiario può esprimersi in vari modi. La prima forma è: “Io lavoro all’ufficio….Se dovesse aver bisogno, sono a disposizione” (parroccianesimo reciproco). Molto apprezzati sono anche i cosiddetti “parrocciani produttivi”, esponenti di categorie ad alto “valore aggiunto”, come: ristoratori, pescivendoli, idraulici, elettricisti, meccanici ed esperti di impianti tecnici in genere. In assenza di tali requisiti, il parrocciano suole ricorrere a regalie di prodotti agricoli (latticini, vino, ortaggi o olio d’oliva) di produzione propria o di provenienza dal borgo natio (“parrocciani agresti”). Sebbene il loro valore commerciale sia modesto, questi omaggi bucolici hanno il buon sapore delle cose genuine di una volta e sono molto ben accetti dall’erogatore o dall’intermediario del parroccianesimo.
Tralasciando le note di “folklore locale”, il parroccianesimo riconosce precise motivazioni sociali. In una società in cui niente funziona come dovrebbe ed in cui certi servizi dovuti si trasformano in magnanime concessioni, è comprensibile che il povero parrocciano possa tentare di ottenere ciò che gli serve esercitando il plus-diritto proveniente dalla conoscenza diretta o dalla “parlatina” dell’intermediario, meglio se persona influente. Intendiamoci, il fenomeno del parroccianesimo esiste anche altrove. Come in America, dove si definisce “the good ol’ boy network”. Solo che in Sicilia esso raggiunge il parossismo a causa della nostra patologica tendenza a richiedere privilegi o a render tali anche le cose più normali. Persino, come direbbe il mio amico, “comprare il giornale”. E qui mi fermo, non volendo entrare in “sicilianate” che riconoscono simili origini, ma che sono ben più gravi e nefaste del semplice parroccianesimo.
Ci sarà mai un momento in cui noi smetteremo di esercitare il parroccianesimo nelle vesti di beneficiario, intermediario o erogatore? Io ne dubito fortemente. Ci vogliono intere generazioni per cancellare le abitudini ed il modo d’essere di un popolo antico come il nostro. Personalmente, posso solo augurarmi che qualcuno dei miei amici o conoscenti non si sorprenda più, quasi offendendosi, di quella mia malcelata irritazione che spesso assume i toni del palese fastidio alla ricezione della “parlatina” in favore di un paziente, vero o presunto che sia. Perché persino un siciliano come me dovrebbe capire che certi atti di parroccianesimo sono offensivi per l’intelligenza di chi li richiede e per la dignità professionale di chi dovrebbe erogarli. E adesso mi rivolgo a te, amico dei tempi belli: “Lo so che mi leggi. Sicilianu sugnu com’a ttia. Intelligenti pauca: non posseggo l’ironia del mio amico romano e tolgo il saluto per molto meno. E poi dove lo trovi più un parrocciano come me?