PALERMO – La controversia era parecchio delicata. In ballo c’era un credito-debito per migliaia di euro – si parla di sessanta o addirittura cento mila euro – fra gli ex soci di un’agenzia di pompe funebri di Bagheria. E così il tentativo di mediazione sarebbe stato affidato a personaggi che contano negli ambienti mafiosi. Ne è venuta fuori una triangolazione fra Bagheria, Brancaccio e Porta Nuova. Proprio a Porta Nuova, fino a pochi mesi fa, c’era il centro di comando – la testa dell’acqua – dell’intera Cosa nostra di Palermo e provincia.
Le indagini dei carabinieri non si sono fermate. Gli arresti del dicembre scorso – ennesima batosta per il clan bagherese – hanno, infatti, lasciato aperto l’interrogativo: che fine ha fatto la controversia? I militari del Reparto operativo e del Nucleo investigativo di Palermo hanno monitorato mesi di incontri frenetici. Intercettazioni e fotografie hanno ricostruito le tensioni fra Rosario Miosi e Cosimo Galioto, un tempo soci dell’impresa Coif srl, che nel 2015 hanno deciso di dividersi. I conti però non tornavano, visto che Galioto risulterebbe debitore di migliaia di euro nei confronti di Miosi. Soldi che avrebbe deciso di non pagare.
E così, annotano gli investigatori, per fare valere le proprie ragioni Rosario Miosi e il figlio Davide si sarebbero rivolti a Nicola Testa e Carmelo D’Amico che lo scorso dicembre sono stati arrestati perché accusati di essere rispettivamente capo e capo decina della famiglia mafiosa di Bagheria. Galioto, dal canto suo, sempre secondo gli investigatori, avrebbe cercato protezione bussando alla porta di alcuni amici di Brancaccio.
Compito arduo quello di Testa e D’Amico. Viste le notevoli difficoltà si sarebbero rivolti a Giampiero Pitaressi, pure lui arrestato alcuni mesi fa con l’accusa di avere tentato di ricostruire il mandamento di Bagheria partendo dalle macerie lasciate dai blitz.
Sfruttando una catena di parentele la questione sarebbe finita sul tavolo di Teresa Marino, moglie del reggente del mandamento di Porta Nuova, Tommaso Lo Presti. Anche a marito e moglie, però, è toccata la sorte di finire in carcere. Stessa cosa per l’uomo indicato come il successore di Lo Presti, Paolo Calcagno, fino a pochi mesi insospettabile grossista di pesce surgelato. Nel corso di un’intercettazione fra Pasquale Di Salvo, inserito dagli investigatori nella schiera dei soldati alle dipendenze di D’Amico, Rosario Miosi e il figlio Davide parlavano della difficoltà di recuperare i soldi. Il dialogo avrebbe fatto emergere che anche Galioto vantava protezioni importanti. Importanti a tal punto da bloccare “a Giampiero e a tutti quelli di Palermo”. Miosi padre sospettava addirittura che Pitarresi e i palermitani ”…sono tutti d‟accordo…ma a noi non ci servono, non mi interessano”. Perché? Perché, così dicevano, “già si è arrivati alla testa dell’acqua, ora chi è che ha sbagliato, il conto lo paga Nicò se è onesto”.
Solo che nei mesi successivi delle intercettazioni tutti i protagonisti della mediazione sono stati arrestati tanto che se da un lato Miosi avrebbe “ricevuto l’autorizzazione a rivalersi su Galioto per riscuotere il credito vantato”, dall’altro Galioto “sta opponendo una strenua resistenza”. Ce n’è abbastanza per definirla “una situazione, apparentemente banale, che rappresenta lo specchio della società palermitana e offre uno spaccato degli equilibri attuali di cosa nostra”. Perché la mafia, seppure in difficoltà, “ha ancora la funzione di risolvere i dissidi fra privati”.
Non è tutto, però. I pubblici ministeri di Palermo stanno cercando di andare oltre la faccenda della lite, mettendo il naso nei possibili “interessi delle famiglie mafiose nel settore delle imprese funebri”. Sono le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia a indirizzare le indagini. Antonino Zarcone, mafioso pentito di Bagheria, ha parlato di accordi iniziali per “monopolizzare il mercato del settore in modo tale da creare un bacino economico a disposizione della famiglia di Bagheria, eliminando la concorrenza fra diverse ditte”. Sergio Flamia, altro pentito del clan, ha aggiunto che “il rapporto tra la Coif e la famiglia mafiosa di Bagheria era che pagava il pizzo. Successivamente stava nascendo un rapporto di lavoro… che vedendo un po’ i soldi che giravano… intorno al cimitero, la famiglia mafiosa di Bagheria… ne avevo delegato Silvio Girgenti per fare una società”. Affari chiusi o ancora in corso?