PALERMO – Un “calvario” lungo undici anni che si concluderà con un’assoluzione, ma anche con tanti lati oscuri. Giulio Andreotti e la mafia, storia di un legame cercato a lungo dai magistrati della procura di Palermo e che avrà il suo epilogo con una assoluzione che non soddisferà in pieno il sette volte presidente del Consiglio, anzi: assolto dalla Cassazione dall’accusa di associazione mafiosa, ma per i reati successivi al 1980. La prescrizione, invece, cancellò con un colpo di spugna i fatti antecedenti. “Mi hanno detto che tecnicamente sarebbe stato difficile fare altrimenti – commentò il senatore -. Si sarebbe dovuto entrare nel merito, rifare il processo. Ma non vorrei entrare io nel merito di questioni giudiziarie che adesso mi sfuggono”. Ma le nubi sul passato del senatore a vita resteranno tutte, aggravate dai rapporti con i cugini Salvo, i potenti esattori di Salemi considerati organici a Cosa nostra. E proprio ai Salvo è legato uno degli spaccati più discussi delle accuse ad Andreotti: il bacio tra il senatore a vita e Totò Riina, raccontato dal pentito Di Maggio, che sarebbe avvenuto a casa di Ignazio Salvo. Altri due pentiti, Vincenzo Sinacori e Gioacchino Pennino, parlarono invece del vassoio d’argento che Andreotti avrebbe regalato alla figlia di Nino Salvo, in occasione del matrimonio con Tani Sangiorgi.
Il capitolo giustizia della lunga vita di Giulio Andreotti si apre un sabato di marzo del 1993: la procura di Palermo, guidata da Giancarlo Caselli, invia un avviso di garanzia ad Andreotti. L’accusa è delle più infamanti per chi, come lui, rappresenta l’intera storia dell’Italia repubblicana: associazione a delinquere di stampo mafioso. Il tramite tra Andreotti e la mafia, secondo i giudici, fu l’europarlamentare Salvo Lima. A dare corpo all’ipotesi accusatoria nei confronti del politico più potente della storia d’Italia anche le dichiarazioni di pentiti del calibro di Tommaso Buscetta e Antonino Calderone. A Palermo inizia il cosiddetto ‘Processo del secolo’: un percorso a ostacoli che porterà, con alterne vicende, all’assoluzione da parte dei giudici del Palazzaccio e che Giulio Andreotti intraprenderà affiancato dagli avvocati Franco Coppi e Gioacchino Sbacchi, oltre che dalla giovanissima Giulia Bongiorno. L’accusa in Aula ha i volti di Roberto Scarpinato, Guido Lo Forte e Gioacchino Natoli.
La sentenza di primo grado arriva sei anni dopo: 11 giorni di camera di consiglio che si concludono con il verdetto d’assoluzione per insufficienza di prove (comma 2 dell’articolo 530 del codice di procedura penale), a fronte di una richiesta di condanna a 15 anni da parte della Procura. Il parziale colpo di scena arriva nel secondo grado di giudizio, datato 2003: i giudici della Corte d’Appello confermano l’assoluzione ma introducono per la prima volta la distinzione tra i fatti contestati fino al 1980 e quelli successivi. Per i primi Andreotti vennee prescritto, ma con una formula decisamente pesante: nelle motivazioni della sentenza, infatti, i giudici sottolinearono che c’era stata “un’autentica, stabile ed amichevole disponibilità” verso Cosa nostra “fino alla primavera del 1980”. Per i fatti successivi arrivò l’assoluzione: “Il tempo è galantuomo – furono le parole dell’imputato -. Quando tutto è cominciato avevo 74 anni e c’era chi pensava che mi sarei tolto di torno presto. Così non è stato. Non mi sono tolto di torno”.
L’ultimo atto arriva nell’ottobre del 2004: i giudici della Suprema Corte, dopo tre processi e 11 anni di udienze, assolvono definitivamente il sette volte presidente del Consiglio dall’accusa di associazione mafiosa per i reati successivi all’80, confermando “il non doversi procedere” sui fatti precedenti “a causa dell’intervenuta prescrizione”: in sostanza, reato commesso ma prescritto.
Nel frattempo Andreotti festeggiava un’altra assoluzione: quella dall’accusa di essere stato il mandante dell’omicidio del giornalista Mino Pecorell. Il 30 ottobre 2003 le sezioni unite penali della Corte di Cassazione annullavano senza rinvio la sentenza emessa dalla Corte d’ Assise di Appello di Perugia il 17 novembre dell’ anno precedente, che aveva condannato Andreotti a 24 anni di reclusione. Il politico veniva individuato, insieme con il boss mafioso Gaetano Badalamenti, come mandante dell’omicidio del giornalista di “OP”. L’ annullamento senza rinvio della sentenza sancì, in via definitiva, l’innocenza del senatore a vita.