PALERMO – Per qualcuno, come il cognato di Gianni Nicchi, si stanno aprendo le porte del carcere. Era uno dei pochissimi imputati ancora in libertà. Da Pagliarelli a Porta Nuova, compreso il popolare quartiere del Borgo Vecchio. Nel luglio 2011 i carabinieri misero in ginocchio la mafia di una grossa fetta della città di Palermo. Ora la Cassazione chiude con una raffica di condanne la storia giudiziaria nata con l’operazione Hybris del Reparto operativo e del Nucleo investigativo del comando provinciale dei carabinieri. Il blitz ricostruì la rete del pizzo e la catena di connivenze che aveva protetto la latitanza di Gianni Nicchi. Mentre gli davano la caccia, il giovane boss alla guida della mandamento di Pagliarelli trascorreva le vacanze a San Vito Lo Capo e ad Amantea, in Calabria, in compagnia della fidanzata.
Le indagini sulla latitanza del picciuteddu si intrecciarono con quelle sugli assetti del mandamento. In carcere finirono, innanzitutto, gli uomini che guidavano la cosca che inglobava le famiglie di Pagliarelli, Calatafimi, Borgo Molara e Rocca-Mezzo Monreale. L’elenco degli arrestati si apriva con Nicchi e proseguiva con quello di Michele Armanno che ne aveva preso il posto al vertice del clan. Ed ancora: Giovanni Tarantino e Giuseppe Bellino, proprietari di una pescheria in corso Calatafimi e di una tabaccheria al Villaggio Santa Rosalia, diventate base operative del clan; Luigi Giardina, cognato di Nicchi e Filippo Burgio, il postino dell’allora latitante.
E poi, una sfilza di picciotti, più o meno giovani, che si occupavano soprattutto della raccolta del pizzo agli ordini di Armanno. Uscito da poco dal carcere, dopo avere scontato una condanna per mafia, lo zio Michele si era rimesso subito in attività. I suoi uomini erano una macchina da soldi. La regola del pizzo era ferrea. I commercianti che pagavano e quelli che dovevano presto mettersi a posto erano indicati in un libro mastro delle estorsioni che lo stesso Armanno custodiva con cura. Venne fuori, ancora una volta, lo spaccato di un’economia mortificata dal racket. Una trentina le persone che pagavano la tassa di Cosa nostra, secondo la ricostruzione dei pubblici ministeri Caterina Malagoli e Francesco Grassi.
Nel corso delle conversazioni intercettate fra Armanno e il suo braccio destro Lareddola si faceva riferimento al libro mastro e al rendiconto con cui confrontare le somme incassate: “Io gli ho detto di fare tutto quello che, è li deve confrontare con quelli che ho scritto io”. Secondo Armano, alcuni negozianti mancavano all’appello: “… gli dici dammi le cose, e dimmi quante ne sono, no no no, quante no sono restate. Le hai fatte tutte? Lui ora vuole mettersi a picchiare. Mi sembra che la vedo moscia… io fiducia non ne do più a nessuno, parliamoci chiaro… Noi possiamo pure salire lo sai? Sono le cinque… guarda chi c’è, c’è questo qua, questo prima era… e all’epoca gli ho rotto le corna… Lui deve prendere i soldi del bar…del forno di là. Il crasto, il macellaio di qua, me l’ha portata”. A volte capitava che i conti non tornassero: “… pensavo, io ho fuoriuscite, giusto è? Perché poi mi trovo sprovvisto” ed aggiungeva che in base ai suoi calcoli mancavano ancora alcune somme “perché vedo quelli che ci sono, quelli che sono scritti e dico minchia ma com’è che mancano soldi, mi hai capito?… domani, dobbiamo acchiappare a quello, il negoziante, quel carabiniere ci deve dare i soldi questa settimana… questo cornuto li, mi sembra che usciva un milione …inc… non mi ricordo…un milione, due milione … sono passati quindici anni… guarda dov’è l’animaletto. Minchia cosa da andarci e dire ma ancora non me li dai… ancora non me li dai cinquecento euro? E a momento viene, sta venendo Pasqua, che poi ci sono quelli di Pasqua e meglio che ce li dà adesso, hai capito?”.
Ecco gli imputati per i quali la condanna diventa definitiva: Giovanni Vincenzo Nicchi (20 anni in continuazione con una precedente condanna),, Giovanni Adamo (10 anni e 4 mesi), Vincenzo Annatelli (6 anni e 8 mesi), Giuseppe Bellino (9 anni e 4 mesi anni), Giovanni Castello (11 anni e 4 anni), Salvatore D’Ambrogio (5 anni e 4 mesi), Luigi Giardina (6 anni); Maurizio Lareddola (14 anni), Alessandro Longo (4 anni e 8 mesi), Mariano Morfino (6 anni e 8 mesi), Vincenzo Di Gaetano (10 anni), Alessandro Sansone (6 anni), Giovanni Tarantino (6 anni e 8 mesi), Giampiero Scozzari (10 anni), Paolo Suleman (8 anni), , Giuseppe Zizo (6 anni e 8 mesi), Filippo Burgio (9 anni, aveva avuto 3 anni e 8 mesi), Davide Pagliaro (1 anno), Francesco Russo (2 anni).
Nel caso di Michele Armanno (16 anni), Filippo Burgio (9 anni), Giovanni Castello (11 anni e 4 anni), Gioacchino Martorana (9 anni) e Marcello Viviano (10 anni), Salvatore Mirino (6 anni e 8 mesi) si torna in appello ma solo per valutare la contestazione della recidiva. Prima era obbligatorio, oggi c’è un margine di discrezionalità che dipende dalla valutazione delle singole posizioni.