Il tramonto dei corleonesi | Storia di sangue e mafia - Live Sicilia

Il tramonto dei corleonesi | Storia di sangue e mafia

Da sinistra Riina, Provenzano, Brusca e Bagarella

Da Riina a Provenzano, da Brusca a Bagarella: cosa resta dei padrini nella mafia di oggi.

PALERMO – “Dobbiamo considerare l’era dei corleonesi come una parentesi nella storia della mafia… quella guerra è finita”, ha detto qualche tempo fa lo storico Salvatore Lupo. Nessuno ha la sfera di cristallo, ma il carcere sembra davvero avere chiuso la parentesi. Basta soffermarsi sulla sorte toccata agli ultimi tre capi. Totò Riina è stato arrestato nel 1993, due anni dopo toccò al cognato Luchino Bagarella, nel 2006 a Bernardo Provenzano. Sono sepolti al 41 bis. Il carcere duro non sempre è stato tale. È vero, i figli nati in provetta ai fratelli Graviano mentre erano detenuti ne sono stati la dimostrazione. Altrettanto vero, però, è che i tempi sono cambiati.

E meno male: prima Riina e compagni si “guadagnavo” le prime pagine con il sangue, oggi lo fanno con le parole. Il capo dei capi parlava a ruota libera, sollecitato dal compagno di passeggiata Alberto Lo Russo. Rancoroso, tracotante e anche un po’ ciarliero. Se la prendeva con tutto e tutti. Se fosse stato ancora libero lui sai il “macello” che avrebbe fatto. Per mesi le cronache sono state impegnate nella missione impossibile di capire se i suoi monologhi fossero lo sfogo di uno che sa di non avere più alcun potere oppure se volesse mandare dei messaggi all’esterno, confidando – qualora fosse vera questa seconda ipotesi – nella irrefrenabile e dilagante corsa a farci – noi tutti, nessuno escluso – mediatori di un messaggio che, altrimenti, sarebbe rimasto confinato nel giardinetto dell’ora d’aria del carcere di Milano Opera.

In un’altra occasione, nel giugno scorso, Totò Riina scelse addirittura di prendere la parola per difendere il cognato Leoluca Bagarella, accusato da un pentito di avere collaborato con gli investigatori per farlo arrestare. “Mio cognato è un galantuomo – disse il capo dei capi, facendo dichiarazioni spontanee al processo sulla trattativa Stato-mafia in cui entrambi sono imputati -. Non capisco perché questo pentito mi ha buttato questa pietra addosso”. Stava parlando di Gaetano Grado.

Di Provenzano si parla ogni qualvolta c’è una nuova puntata della telenovela “41 bis sì – 41 bis no”. Di recente il ministro della Giustizia gli ha confermato il carcere duro. Nonostante da quasi due anni sia ricoverato nel reparto detenuti dell’ospedale San Paolo di Milano in stato quasi vegetativo, il padrino sarebbe ancora una minaccia.

Lo scenario tracciato da tonnellate di carte giudiziarie e migliaia di intercettazioni telefoniche ci dice che il fascino dei padrini corleonesi resiste quasi esclusivamente nella testa dei nuovi mafiosi. Che spesso hanno cognomi antichi, come i Lo Bue, i Gariffo o i Grizzaffi (di Giovanni Grizzaffi, tutti attendono la scarcerazione nel 2018).

Sono i parenti e amici di Totò u curtu e Binu u tratturi che sarebbero tornati a comandare Corleone. Le recenti indagini ci dicono che la tradizione serve ancora ad alzare la voce in una grossa fetta di provincia, ci sono dei contatti con alcune famiglie palermitane e agrigentine, ma siamo lontani dai sanguinari fasti dei peri ‘ncritati che tre decenni fa si mossero da Corleone alla conquista del capoluogo. “Ah se ci fosse Riina”, dicono i nostalgici di quella stagione di violenza. Si rammaricano per la loro assenza e ne parlano al passato.

A chiudere la parentesi ha contribuito soprattutto l’arresto degli ultimi grandi padrini. Provenzano, ma anche Nino Rotolo, boss di Pagliarelli, il più fedele difensore dell’ortodossia corleonese a Palermo. Ed era pronto alla guerra con il nemico numero uno, quel Salvatore Lo Piccolo che si era messo in testa di sponsorizzare il rientro in città degli Inzerillo e dei Gambino, rampolli delle famiglie degli scappati in America per evitare il piombo corleonese. Finì che arrestarono tutti e gli animi si calmarono.

I corleonesi sopravvivono nel mito che affascina i giovani, ma anche nella mentalità di qualche vecchio che, tornato in libertà, tenta, a fatica, di fare valere le vecchie regole di Cosa nostra. Il potere, quello vero, dicono gli investigatori, è altra cosa. Persino il più corleonese dei non corleonesi, Matteo Messina Denaro, è indaffarato a nascondersi chissà dove, piuttosto che ad esercitare il potere nel territorio. È un fantasma. Chi batte un colpo ogni tanto, invece, è Giovanni Brusca, altro corleonese doc, che dice di essere diventato un uomo diverso, non più il crudele sanguinario che strangolava i bambini e li scioglieva nell’acido. Nonostante qualche marachella commessa sotto programma di protezione, lo Stato lo ha perdonato più volte e gli assegna dei permessi premio per trascorrere dei giorni fuori dal carcere.


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