PALERMO – “Chiddi un sannu arricugghiutu cu u cosi i lignu”. Le cimici captano una frase appena pronunciata. L’orecchio attento degli investigatori fa il resto dopo mille interminabili ascolti. E oggi la svolta.
Hanno un nome i presunti assassini di Enzo Fragalà, a tre anni e mezzo di distanza dalla barbara uccisione dell’avvocato penalista palermitano. Tre persone sono state raggiunte da un’ordinanza di custodia cautelare. Sono Francesco Arcuri, Salvatore Ingrassia e Antonino Siragusa. I primi due si trovavano già in carcere per storie di mafia e pizzo. Sono ritenuti affiliati al mandamento di Porta Nuova. La terza, l’unica finora in libertà prima dell’arresto, graviterebbe nel sottobosco della criminalità specializzata nelle rapine. Sarebbero stati loro a compiere la missione di morte. Sarebbe stato Arcuri a uccidere a colpi di bastone Enzo Fragalà.
I carabinieri del Nucleo investigativo del comando provinciale di Palermo, al termine di un’indagine lunga e difficile, sono certi di avere dato un volto agli esecutori materiali del delitto. Restano ancora da accertare, però, i nomi dei mandanti e il movente. In ballo ci sono due ipotesi. Una, quella su cui si basa la misura cautelare, accredita il racconto della pentita Monica Vitale: Fragalà sarebbe stato ucciso per una questione passionale. L’altra tira in ballo i boss dell’Uditore. In ogni caso c’è l’ombra pesante di Cosa nostra sull’efferato delitto anche se nella misura cautelare il giudice per le indagini preliminari Fernando Sestito ha ritenuto al momento di non contestare agli indagati l’aggravante dell’articolo 7 oltre al reato di omicidio volontario.
La sera del 23 febbraio 2010 Enzo Fragalà era appena sceso dal suo studio di via Nicolò Turrisi, a pochi passi dal Palazzo di Giustizia. Un uomo lo aggredì con un bastone. Un colpo alle gambe per bloccarne la fuga. E poi altri colpi alla testa mentre la vittima cercava di proteggersi con le braccia dalla furia dell’aggressore. Tre giorni dopo, il 26 febbraio, il cuore del penalista smetteva di battere all’ospedale Civico di Palermo.
Dal delitto commissionato dai boss emergenti di Cosa nostra all’attività parlamentare di Fragalà, dalla pista Rom al lavoro di penalista: l’inchiesta coordinata dal procuratore aggiunto Maurizio Scalia e dai pubblici ministeri Antonino Di Matteo e Carlo Lenzi ha scandagliato ogni ipotesi per trovare la chiave del delitto.
Nel dicembre 2011 si pente Monica Vitale. Era l’amante di Gaspare Parisi, picciotto emergente del clan di Borgo Vecchio. La Vitale si cuce addosso il ruolo di donna del racket. Nel suo verbale fa il nome di Fragalà. La neopentita sostiene di avere ascoltato una conversazione fra Parisi e Tommaso Di Giovanni, capomafia di Palermo centro finito in cella due anni fa. Di Giovanni si compiaceva del fatto che avessero scambiato Franco Arcuri per Ivano Parrino. Si riferiva all’ipotesi investigativa, poi archiviata, riportata dalla stampa sul presunto coinvolgimento di Parrino nel delitto.
La stessa Vitale aggiunge di avere ascoltato Di Giovanni mentre forniva una sua chiave di lettura dell’omicidio. Fragalà non si era comportato bene con la moglie di un suo cliente, e il cugino dell’indagato avrebbe chiesto ai mafiosi di dare una lezione al penalista per il suo atteggiamento irrispettoso. La Vitale è stata giudicata attendibile in tutte le inchieste alle quali ha contribuito con le sue dichiarazioni. Ecco perché il Gip definisce oggi “sostenibile” la sua tesi” nonostante i dubbi degli stessi investigatori. Il cliente del penalista aveva dato fastidio con i suoi furti senza autorizzazione tanto che gli avevano bruciato la macchina. La mafia avrebbe mai potuto fare un favore, uccidendo il povero Fragalà, ad una persona che si era meritata una punizione?
Gli investigatori non escludono un altro movente strettamente connesso all’attività professionale della vittima. Fragalà, titolare di uno degli studi più affermati della città, assisteva, tra i suoi tantissimi clienti, anche Vincenzo Marchese e Salvatore Fiumefreddo, sotto processo con l’accusa di avere fatto da prestanome al capomafia dell’Uditore Nino Rotolo. Durante il dibattimento, in cui era imputato lo stesso Rotolo, i due indagati avevano reso delle confessioni, tanto che in un pizzino Gianni Nicchi appellava Marchese con la parola “indegno”.
Qualche giorno prima di essere ucciso, Fragalà aveva prodotto in udienza una lettera con cui la moglie di Rotolo si scusava delle grane capitate a Marchese che in molti definivano indegno per la sua strategia processuale. Sembra che anche Gianni Nicchi lo definisse tale. E Nicchi, astro nascente della Cosa nostra palermitana, era figlioccio di Nino Rotolo e grande amico di Arcuri con cui si accompagnava in moto la sera prima che venisse arrestato nel covo di via Juavara dove finì la sua latitanza. Che i rotoliani avessero deciso di dare una lezione, di loro iniziativa, al penalista che non aveva timore dei boss? In questo quadro i pubblici ministeri collegano il delitto al disegno di Cosa nostra di punire gli avvocati siciliani che nulla avevano fatto per loro una volta eletti in Parlamento e citano il proclama di Leoluca Bagarella davanti alla Corte d’assise di Trapani. Il boss corleonese, era il 13 luglio 2002, disse: “Siamo stanchi di essere strumentalizzati dalla classe politica, le promesse non sono state mantenute” con riferimento al regiime del carcere duro. Il Gip, però, è di parere contrario, considerando le indicazioni della Vitale come le uniche sostenibili nel quadro indiziario finora raccolto.
Sul movente, dunque, non ci sono ancora certezze assolute. Le certezze che, invece, gli investigatori dicono di avere raggiunto per stringere il cerchio attorno agli esecutori materiali del delitto. La sezione dei carabinieri diretta dal capitano Dario Ferrara e il Nucleo investigativo del maggiore Alberto Raucci (che ha preso il testimone dal maggiore Antonio Coppola) hanno ripassato al setaccio una sfilza di intercettazioni, tra cui quella registrata da una microspia piazzata dalla polizia che dava la caccia, risultata poi vincente, a Gianni Nicchi. I militari del Nucleo operativo guidati dal colonnello Salvatore Alltavilla e dal comandante provinciale Pierangelo Iannotti hanno tirato le somme investigative.
Alle 19 e 09 del 23 febbraio e cioè circa un’ora prima che Fragalà venisse pestato a morte, Siracusa chiama la moglie che non risponde. Accanto a lui ci sono Arcuri e Ingrassia. Parlano di posizioni da mantenere, di fughe in macchina e in moto. E del legno che non era ancora arrivato. Sul luogo del delitto, in via Turrisi, viene fotografato e riconosciuto, dicono gli investigatori, Siracusa. È in sella ad uno scooter, una Honda Sh 300 di colore bianco, con cui era già stato ripreso in altri luoghi della città. Ed è lo stesso scooter di cui aveva parlato, descrivendone persino le frecce, un testimone che si trovava sul luogo del delitto. Lo scooter in sella al quale i presunti esecutori del delitto di Enzo Fragalà sarebbero fuggiti dopo averlo massacrato a bastonate.
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