PALERMO – Qualcuno ce lo spieghi. Ci dica come sta la nostra malata Sicilia. Un intellettuale. Un magistrato. Un imprenditore. Un giornalista. L’analisi può arrivare da chiunque. Coltiviamo una speranza. Speriamo, infatti, che la situazione sia meno terribile di come ci appaia.
Il 29 agosto 1991 in via Vittorio Alfieri la mafia ammazzava Libero Grassi. Oggi è il giorno del ricordo di un uomo che voleva essere libero. Di nome e di fatto. Libero dal pizzo. Vorremmo che diventasse anche il giorno della riflessione attorno alla domanda: cosa è cambiato negli ultimi 22 anni?
La riflessione parta dalla cronaca. E la cronaca dice che a Palermo, la città dove Libero Grassi è stato ammazzato, il pizzo lo pagano ancora migliaia di persone. Lo dicono gli investigatori che ascoltano il ventre di una città malata. Cinquecento euro al mese per i negozi. Fino a 1500 per i cantieri edili. E non più pagamenti per le feste comandate, Pasqua e Natale, ma con cadenza mensile. Come si faceva una volta. Alla faccia della crisi. I picciotti del racket sono di nuovo in circolazione. O meglio, non se ne sono mai andati. Hanno solo cambiato faccia.
Nell’ultimo decennio centinaia di persone sono finite in carcere. Roba da fiaccare la resistenza di qualsiasi organizzazione. Non di Cosa nostra, però, che mai ha smesso di controllare il territorio. Prendete Alessandro D’Ambrogio, arrestato con l’accusa di essere il capo mandamento di Porta Nuova. Nella sua agenzia di pompe funebri nel rione Ballarò per mesi i carabinieri hanno assistito alla questua dei nuovi miserabili. Gente che chiedeva al boss il via libera per vendere lo sfincione per strada. Per piazzare la bancarella abusiva di frutta e verdura. Peggio ancora, per le sigarette di contrabbando. E D’Ambrogio ascoltava tutti. Dispensava aiuto e consigli. Ed è diventato un mammasantissima.
D’Ambrogio ora è di nuovo in carcere. In cella c’era già stato. Proprio come tanti altri boss che, una volta liberi, sono tornati a delinquere. Da alcuni giorni sei pezzi da novanta condannati nel processo Gotha hanno lasciato il carcere. Nell’attesa di scoprire se anche per loro la rieducazione sarà miseramente fallita, poliziotti, carabinieri e finanzieri fanno i conti con chi continua a pagare il pizzo. Stanno scrivendo la nuova mappa del racket. Da San Lorenzo a Brancaccio, dall’Arenella a Pagliarelli. I soldi servono per le famiglie dei carcerati e per i nuovi picciotti che amano la bella vita e i vestiti griffati. Gli toccano poche centinaia di euro al mese di stipendio, ma calzare una scarpa di marca basta loro per sentirsi più vicini ai loro padrini, vecchi e nuovi, che se la spassano a bordo di lussuose barche. Padrini che per fare soldi a palate sono tornati al business della droga. Le cifre guadagnate con gli stupefacenti vengono investite in attività apparentemente lecite. Dalle boutique del lusso nel centro città alle agenzie di scommesse sportive. Le notizie di sequestri e confische sono all’ordine del giorno. È concreto il rischio di trovare sui giornali il titolare del negozio sotto casa tua. Sintomo di un’economia malata.
La situazione peggiora con la fredda lettura dei numeri. Nel corso dell’inaugurazione dell’ultimo anno giudiziario si è detto che il numero delle estorsioni, quelle scoperte, nel distretto di Palermo (che comprende anche Sciacca, Marsala,Trapani e Termini Imerese) sono state 592 contro le 575 del 2011. A fronte di una ventina di denunce. Cifre irrisorie per ammissione degli stessi addetti ai lavori. Basta ricordare le parole del presidente della Corte d’appello, Vincenzo Oliveri (“Nonostante i durissimi colpi subiti Cosa nostra conserva sostanzialmente immutata la sua struttura organizzativa profondamente radicata nel territorio e non si avvertono segni di cedimento”), e del procuratore di Palermo, Francesco Messineo (“Oggi siamo di fronte a un quadro desolante, con poche eccezioni. Ci sono casi di imprenditori coraggiosi, che denunciano il fenomeno del pizzo, ma è desolante che a tanti anni di distanza la situazione sia ancora in questi termini”). Non sono dichiarazioni di vent’anni fa, ma di pochi mesi addietro. Come quelle di Daniele Marannano ed Enrico Colajanni delle associazioni Addio Pizzo e Libero futuro. A Palermo oltre “700 operatori economici e più di 10 mila consumatori” hanno aderito al “consumo critico” per favorire la denuncia di chi subisce il racket, ma le denunce di estorsione riguardano al momento “solo 100-200 imprenditori” contro “i 10 mila paganti”.
Già, diecimila paganti. E torniamo alla domanda iniziale: 22 anni dopo l’omicidio di Libero Grassi cosa è cambiato? In mezzo ci sono tante fatti positivi. La nascita dei movimenti antiracket, l’arresto di quasi tutti i grandi latitanti (Matteo Messina Denaro escluso), il nuovo corso di Confindustria, il grande cuore dei ragazzi di Addipizzo, la manifestazioni di giubilo davanti alla Squadra mobile il giorno dei blitz, la ribellione di alcuni imprenditori. Tutto vero. Tutto sacrosanto, come il tributo alla memoria di un uomo, Libero di nome e di fatto. Purtroppo, però, ci sono anche quei “diecimila paganti” (per paura o per convenienza) che fanno della rivoluzione, tanto invocata e a volte urlata, una rivoluzione finora mancata. Rimbocchiamoci le maniche.