“Non lo farei più questo passo”, dice accorato Francesco Chiarello. Si pente di essersi pentito. L’uomo del racket al Borgo Vecchio arriva ad augurarsi il peggio: “Il Signore mi deve prendere”. Perché? “Perché ho perso tutto, sono in carcere, non vedo più i miei parenti, mi dicono che sono sbirro”.
In Corte d’appello si assiste, più che a una deposizione, allo sfogo del collaboratore di giustizia. Che non risparmia neppure i legali degli imputati: “Ci faccio una bella denuncia contro gli avvocati che fanno gli spiritosi dal primo momento”. Il pubblico, composto dai parenti degli imputati, rumoreggia. Chiarello, collegato da una località riservata per ragioni di sicurezza, non può sentire il brusio, ma le parole del presidente, Mario Fontana, quelle sì. Il giudice interrompe il siparietto. Invita il pentito a usare un linguaggio rispettoso dei luoghi, mentre anche l’avvocato Giovanni Castronovo lo rintuzza.
Alla fine pare ricredersi: “Chiedo scusa avvocato”. È sulla sua attendibilità che le difese giocano la partita del processo d’appello ai mafiosi di Porta Nuova e Bagheria che in primo grado sono stati condannati a due secoli e mezzo di carcere. E lo dimostrano le continue domande dei legali, tra cui, Raffaele Bonsignore, Angelo Barone, Giovanni Di Benedetto e Antonio Gargano.
Sotto processo ci sono boss e picciotti. A cominciare dal presunto reggente del potente mandamento palermitano, Paolo Calcagno, e Teresa Marino, moglie del capomafia Tommaso Lo Presti. Hanno avuto 14 anni ciascuno di carcere. Nei mesi scorsi la Cassazione ha ritenuto credibile il racconto di Chiarello che ha fatto riaprire le indagini sulla morte dell’avvocato penalista, ed ex parlamentare di Alleanza nazionale, Enzo Fragalà, aggredito a Palermo a colpi di bastone la sera del 23 febbraio 2010 e morto dopo tre giorni di agonia. I difensori, però, continuano a sostenere che i suoi racconti siano zeppi di contraddizioni.