PALERMO – Il prossimo passaggio sarà l’eventuale appello da parte dei pubblici ministeri (Teresi, Di Matteo, Del Bene, Tartaglia) che hanno 45 giorni di tempo per impugnare la sentenza di assoluzione di Calogero Mannino. Nessun commento ufficiale. Subito dopo l’assoluzione era stato Antonino Di Matteo a sbilanciarsi con un “faremo appello”. Si tratta della scelta più probabile nonostante al.Palazzo di giustizia rinviino ogni decisione. Prima bisognerà leggere le motivazioni in cui il giudice Marina Petruzzella parla di “suggestiva circolarità probatoria”. Tre parole, in oltre 500 pagine di motivazione, che da sole picconano il “castello accusatorio” della Trattativa Stato-mafia. È inevitabile chiedersi se e come l’assoluzione di Calogero Mannino inciderà sull’altro processo in corso davanti alla Corte d’assise. Specie se valutata alla luce di un’altra assoluzione, quella ottenuta dal generale Mario Mori in due gradi di giudizio.
Marina Petruzzella demolisce i collaboratori di giustizia Giovanni Brusca e Massimo Ciancimino e fa emergere le mille contraddizioni in cui sarebbero caduti, trascinando i pm che hanno dato loro credito e ai quali il giudice non risparmia critiche sulla gestione delle indagini.
Nelle motivazioni Petruzzella parte da lontano. Ricorda, infatti, che di Trattativa e di papello con le istanze avanzata dai boss ai rappresentanti dello Stato per fermare le stragi si era già parlato in un’inchiesta aperta nel 2000, e archiviata nel 2004, sulla base anche delle dichiarazioni di Brusca e di Salvatore Cancemi. I pm ritennero allora, scrive il giudice, “che i vagli investigativi effettuati non avessero colmato i numerosi buchi neri che si presentavano nelle ricostruzioni iniziali”. Non solo, ricorda ancora il Gup, che “analoghe valutazioni di inadeguatezza processuale del predetto materiale d’indagine furono ritenute inoltre, da inquirenti e giudicanti, nel contesto di tutti i procedimenti sulle stragi del ’92 di competenza degli uffici giudiziari di Caltanissetta, e nel contesto dei procedimenti sugli eventi stragisti del ‘93 e del ’94, trattati dagli uffici giudiziari di Firenze, ed altresì nell’ambito delle contemporanee indagini, della Procura di Caltanissetta, sui mandanti occulti, e della Dda di Firenze sulla serie di situazioni ipoteticamente correlate alle stragi”.
Nel 2008, però, il quadro cambia. Sulla scena irrompe Massimo Ciancimino che diventa “la quasi icona antimafia”, come la definì l’allora procuratore aggiunto Antonio Ingroia che coordinava il pool dei pm della Trattativa. Su di esse si innestarono le dichiarazioni di Brusca “da una certa data in poi”, sottolinea il giudice per stigmatizzare il cambio di rotta del boss di San Giuseppe Jato che solo a distanza di anni dall’inizio della sua collaborazione iniziò a raccontare degli “indicibili accordi”.
Il giudice fa l’elenco di tutti gli elementi che i pm hanno portato in aula per chiedere la condanna di Mannino e che hanno alimentato “il mosaico accusatorio sulla complessa ipotesi della Trattativa Stato-mafia e in cui vengono riagganciate a ritroso le condotte attribuite all’imputato Mannino, ma che “non assumono adeguata validità probatoria”.
Petruzzella li cita uno dopo l’altro: la paura di Calogero Mannino di essere ammazzato che lo spinse a chiedere aiuto ai carabinieri del Ros, l’indagine mafia-appalti, le storie nere della falange armata, la sostituzione di ministri “duri” con altri più “morbidi” e pronti ad assecondare il volere dei boss, le vicende del regime carcerario del 41 bis. Terminata la lista, ecco la picconata: “Questo elenco afferisce in buona parte a situazioni notorie o pacifiche, che quindi non avrebbero avuto bisogno di essere provate, ovvero probatoriamente poco significative, in quando ad esse i canoni della conoscenza e dell’esperienza possono attribuire varie ragionevoli interpretazioni, alternative e diverse da quelle unidirezionali, e comunque indimostrate, prescelte dal pm”.
Secondo il giudice, “elementi del contesto politico vengono caricati di valore dimostrativo… poi tutti questi elementi vengono considerati situazioni probatorie o di riscontro indiziario reciproco, in una sorta di suggestiva circolarità probatoria. Ma, si ripete, ciascuno dei fatti politici valorizzati dal pm può avere avuto cause diverse, dettate ad esempio dalle consuete logiche di appartenenza della macchina e della burocrazia partitica, dalla volontà di evitare la linea netta di contrarietà al 41 bis, ovvero dalla volontà di percorrere una linea meno coraggiosa di quella di Vincenzo Scotti, anche ispirata da scelte di bieco opportunismo politico, senza la necessità di un accordo siglato con una parte mafiosa”.
E anche qualora fosse stato provato – il processo ha stabilito il contrario – che “la condotta di Mannino avesse contributo alla minaccia al Governo”, non è stata trovata traccia alcuna del cosiddetto elemento psicologico del reato. E cioè “la coscienza e volontà del fatto criminoso e la volontà di concorrere con altri alla realizzazione del reato”. Ma è il reato stesso che frana leggendo le motivazione del giudice. In un passaggio scrive: “Di certo resta il fatto che Mori e De Donno, ufficiali del Ros, corpo dedicato alle investigazioni antimafia e alla ricerca dei più pericolosi latitanti, andarono a rivolgersi a Vito Ciancimino, conoscendo chi fosse e quali interessi rappresentasse, ed ebbero con lui un’interlocuzione che, relativamente a quanto può considerarsi accertato, ebbe come fine la risoluzione di quei problemi dì ordine pubblico e principalmente la cattura di Riina”. Ecco perché è inevitabile ipotizzare che, più dell’assoluzione di Mori, la sentenza che ha scagionato Calogero Mannino peserà sul processo ancora in corso in Corte d’assise.