Le sue dichiarazioni sono passate quasi sotto silenzio. Disperse nel frastuono delle commemorazioni del giudice Giovanni Falcone. Ma è proprio l’eredità del modello investigativo voluto dal giudice trucidato dalla mafia che, secondo Claudio Martelli, è andata perduta. Quel modello di cui una parte delle magistratura si è autoproclamata detentrice.
“E gli Ingroia e i Di Matteo? Si professano discepoli di Falcone, ma le loro scelte processuali sembrano piuttosto ispirate ai suoi nemici”, ha scritto in un editoriale pubblicato dal Resto del Carlino l’ex guardasigilli che chiamò Falcone a lavorare al suo fianco al ministero.
Le scelte processuali, ha scritto Martelli, altro non sono che “teoremi fragorosi e indimostrabili, avvisi di garanzia come coltellate, rinvii a giudizio senza altre prove che le dichiarazioni intimistiche di pentiti in cerca d’autore”.
Ogni riferimento a fatti e circostanza non è puramente casuale. Martelli prende le distanza dal modello che sta alla base del processo sulla Trattativa Stato- mafia voluto da Antonio Ingroia e, una volta che l’ex pm ha lasciato la magistratura per la politica, proseguito dal pubblico ministero Antonino Di Matteo.
“Resiste l’idea ossessiva del terzo livello – ha aggiunto Martelli – una struttura politica che comanderebbe la mafia; ‘un’idea ridicola come la Spectre’, diceva Falcone”.
Eccolo, secondo l’ex guardasigilli, il punto di rottura con il passato, con il modello investigativo di Falcone, il quale scriveva che bisognava “adottare iniziative quando si è sicuri dei risultati ottenibili. Perseguire qualcuno per un delitto, senza disporre di elementi irrefutabili a sostegno della sua colpevolezza, significa fare un pessimo servizio”. Le parole di Martelli, la cui testimonianza era stata fra le più “apprezzate” al processo sulla Trattativa, ha scatenato reazioni veementi. C’è chi ha bollato il suo editoriale come un fallo da ultimo uomo proprio negli ultimi minuti del processo.