Uno lasciò il gruppo del Pd al Senato nella passata legislatura in aperto dissenso con il partito, l’altro due anni fa fu espulso da quello dei Cinquestelle per insubordinazione: entrambi oggi sono schierati per il No al referendum. Corradino Mineo e Gregorio De Falco, gemelli diversi, vestono i panni degli outsider fuori dagli schemi e dai partiti macinando chilometri in giro per il Paese per spiegare le ragioni del No.
Il senatore De Falco, che aderì al gruppo Misto dopo “le purghe” pentastellate, motiva così il suo secco no alla riforma. “La motivazione del mio No al referendum è veramente molto ampia, sia sotto il profilo tecnico, in primo luogo per l’incostituzionalità formale perché va in contrasto con l’articolo 3 e l’articolo 48, in quanto il voto degli italiani diventa irrilevante e altamente differenziato sul territorio nazionale”, spiega. “Il voto del cittadino assume un peso totalmente differente a seconda che egli lo esprima in Trentino o in Calabria. Con questa riforma il voto del Trentino varrà il doppio di quello della Calabria”, continua. Poi fa un esempio.
“I calabresi eleggeranno sempre sei rappresentanti, ma la Calabria ha due milioni di abitanti e il Trentino Alto Adige ne ha uno. Si ha una violazione netta dell’articolo 3 comma primo e dell’articolo 48 dove si dice che il voto deve essere libero, ma anche diretto e soprattutto uguale”, argomenta il senatore che domani chiuderà la campagna referendaria a Misterbianco in provincia di Catania.
“Poi ci sono le violazioni di tipo sostanziale perché questa riforma mina il pilastro della democrazia rappresentativa: cioè la rappresentanza. Rarefacendo la presenza dei deputati, e soprattutto dei senatori, si creano delle vere e proprie soglie implicite, cioè se in Basilicata devono eleggere tre senatori accade che i primi due seggi sono ad appannaggio del partito di maggioranza, il terzo del secondo partito e quindi il quarto candidato non ottiene seggio anche ha preso il 20% dei consensi”, spiega.
De Falco non lesina critiche all’armata giallorossa. “Così il voto si trasforma, da voto di rappresentanza di interessi locali a voto di opinione generale di tipo nazionale, e quindi non afferente ai bisogni dei territori. Chi l’ha proposta ha dato vita a una riforma demagogica, gli altri che la cavalcano lo fanno per opportunità politica”, attacca.
Corradino Mineo, giornalista ed ex senatore del Pd, ha le idee altrettanto chiare. “Questa è un’altra riformetta che pretende di colpire l’effetto e non la causa. L’effetto, cioè che i parlamentari lavorano a vuoto e male, la causa cioè le scelte fatte negli ultimi 50 anni dal sistema dei partiti che ha ridotto i parlamentari a un ruolo di tappezzeria li costringe a votare la fiducia ai governi”, spiega. “Nelle commissioni ormai si pretende che il parlamentare rappresenti il partito, quindi anche quando la legge non è pronta o obbedisce a questo potere esterno oppure viene cacciato via”, dice l’ex senatore che nella passata legislatura entrò in aperto conflitto con i dem per la sua netta opposizione all’Italicum e al Jobs Act.
C’è poi un problema di rappresentanza. “Se il numero dei deputati viene ridotto nel numero con collegi enormi come quelli che verrebbero fuori dall’attuale legge elettorale si consegnano i parlamentari al controllo totale dei capi di partito”, continua Mineo che ritiene il voto della truppa zingarettiana coerente e non anomalo. “Penso che una parte il Pd sia coerente a votare sì, in quanto una delle tradizioni del Pd, ormai da trent’anni, persegue un folle progetto di democrazia autoritaria nella convinzione che meno poteri ha il parlamentarismo proporzionalista italiano, più facile sia costruire l’alternanza tra destra e sinistra nel nostro Paese”, dice. Poi spiega nel dettaglio l’accusa rivolta, nemmeno tanto velatamente, alla classe dirigente dem made in “Pci”. “Già nel 1989 loro pensavano di essere eredi, chissà perché, dell’egemonica culturale e politica che il Pci esercitava già dagli anni 50 ma che la loro base fosse settaria”, dice. “Quindi liberandosi della loro base storica e del nome del partito sarebbero stati un gruppo dirigente d’elezione convincendosi che, in un sistema dove vince uno schieramento o l’altro, la gente avrebbe scelto loro: in realtà così hanno inventato Berlusconi, motivato la protesta dei Cinquestelle e oggi stanno per fare un grosso favore a Salvini.