Il dolore innocente è disperato e senza riposo. Il dolore colpevole è straziante, perché non gli viene riconosciuto il diritto alla compassione. Abbiamo seguito la vicenda di Lucia e Carmela Petrucci che hanno incontrato un assassino sulla loro strada. Samuele Caruso, accecato da un qualcosa di oscuro, tese un agguato alle due ragazze nell’androne di casa, per ‘vendicarsi’ di una relazione troncata con Lucia. Carmela fu uccisa a coltellate. La sorella riuscì a salvarsi per un prodigio impossibile da spiegare.
E’ passato il clamore della commozione popolare. La mutilazione insanabile è rimasta. La famiglia Petrucci, sul bordo esterno dell’abisso, ha sparso briciole di dignità e di grandezza, tenendo un comportamento ineccepibile nella subita spettacolarizzazione dell’evento. Lucia è oltre gli abbracci, oltre gli occhi, oltre le mani. E’ una ragazza bellissima e trafitta. Nella sventura ha una fortuna: il sostegno di familiari unici che stanno provando a ricominciare con lei. La preghiera della vicinanza è semplice da formulare, come l’augurio che il cammino riesca a giungere in un luogo dove non ci sono soltanto le lacrime.
Poi ci sono gli altri. Quasi nessuno ha rivolto uno sguardo agli altri genitori. Samuele Caruso non è un mostro, perché sarebbe troppo facile e assolutorio definirlo tale. E’ un giovane e piccolo uomo che ha compiuto un gesto irrevocabile che non potrà mai essere espiato. Un’azione criminale orrenda e definitiva che si è posta dopo il confine di ogni umana comprensione. Ma ha un padre e una madre che stanno soffrendo le pene di un inferno parallelo, differente.
Non è stata buona la vita per i signori Caruso. Avevano già perso tre figli per fatti e malattie che non si conoscono compiutamente. Hanno smarrito il quarto nei corridoi di un carcere (a differenza di Carmela, è comunque vivo: particolare che rende i due lutti diversi e incommensurabili). Samuele è cresciuto sotto la vigilanza di persone a loro volta mutilate. Si è abbeverato al veleno di un maschilismo orecchiato in compagnia e infine incardinato. Ha maturato la rivalsa di un animale in catene. Ha avuto una storia con Lucia, che non apparteneva al suo giro abituale. Nella relazione ha annusato la possibilità di un cambiamento. Così, quando tutto si è chiuso – niente resiste a una immodificabile differenza primaria nella chimica di una coppia – il ragazzo che metteva su Facebook le sue foto da palestrato ha deciso di prendersi la sua vendetta, rovinando per sempre un mondo di affetti e possibilità.
Chi ha visto Samuele Caruso lo descrive – nel processo che si chiuderà a gennaio con la sentenza – alla stregua di una specie di automa da aula del tribunale. Lo sguardo fisso. La postura eretta sulla panca circondata dagli agenti della polizia penitenziaria. Il palmo delle mani posato sulle ginocchia. Non un sussurro. Non una smorfia. Non un cenno. Il nulla assoluto mentre periti e pm ripercorrono lo scempio di quel giorno. In un dibattimento difficilissimo, governato da un giudice donna con equilibrio e sensibilità, lo sgomento appare dipinto negli occhi di molti. Samuele non muove un muscolo.
Siamo ancora nel panorama delle cose visibili. L’assassino, le vittime, le foto, il corollario mediatico della tragedia. Eppure c’è un angolo di buio impenetrabile sui volti degli altri genitori. Non può essere svelato. Non può essere contenuto. Non può essere compreso. E’ un dolore sporco, associato alla colpa, sebbene sia innocente. Non sarà una cattiva azione ricordarsi di questa pena. E dedicarle, da lontano, una preghiera.