Quella mattina di metà dicembre del 2004 dovevo parlare a un congresso. Al termine del mio intervento, sollevato dall’ansia prestazionale, uscii dalla sala per chiamare il mio reparto. Le parole di Giorgio, il mio giovane allievo di allora, mi suonarono come una ritorsione. Usando il mio solito trucchetto del “creare l’attesa” per richiamare attenzione, Giorgio sussurrò al telefono una frase sibillina: “Novità ? Sì, qui c’è stato un gran subbuglio. Domani capirai”. L’indomani, entrando in reparto, non notai nulla di strano. Almeno fino a quando non giunsi all’ultima stanza: la numero 13, laggiù in fondo al corridoio. Entrai senza bussare e vidi una cascata di capelli biondi che scendeva sulla schiena di una giovane donna. La signora era seduta sul bordo del letto con lo sguardo rivolto alla finestra e le spalle verso la porta. Quando si volse verso me non riuscii a non notare la sua bellezza. In fondo, sotto un camice c’è pur sempre un uomo. Come direbbe Totò, “fatto di carne, ossa e cartilagini”. Ecco cosa intendeva Giorgio. Forse.
La signora era magrissima; tuttavia, il pallore e quei solchi sul viso non riuscivano a scalfirne la bellezza. Sul comodino una rosa rossa a stelo lungo, un dono che il marito rinnovò ogni giorno per settimane. Il letto attiguo era libero come non capita mai nel mio reparto; sul tavolo, un televisore e un PC. Capii al volo: la bella signora era stata isolata. Ripensai subito a Violetta, alla “gelida manina” di Mimì e a Silvia, l’amata del Leopardi. Forse il “subbuglio” di cui parlava Giorgio non era solo dovuto alla bella ammalata, ma anche alla sua malattia: tubercolosi. Il “mal sottile” di Chopin e Goethe, la malattia romantica descritta da Thomas Mann e Bufalino.
Il primo approccio non fu dei migliori. La signora passava gran parte del suo tempo al PC. Come spesso capita alle belle donne, faceva i capricci. Sbuffava per i prelievi e le flebo e rispondeva quasi con fastidio alle mie domande, come se non volesse lasciarsi curare. La sua ostilità verso la mia categoria era giustificata dal fatto che nessuno aveva compreso che dietro un’infertilità trattata senza successo per quasi due anni c’era solo il deperimento dovuto a una malattia che in troppi credono distante da noi, benestanti autoctoni del primo mondo. La vigilia di quel Natale entrai da solo nella stanza e la trovai, ancora una volta, in lacrime.
Presi il coraggio a due mani, mi sedetti sul bordo del letto e, concedendomi un “tu”, le dissi: “Ascoltami. I tuoi polmoni sono pieni di cavità e tu passerai le Feste qui dentro da sola. La terapia sarà lunga e dovrai sottoporti a tanti controlli. Ma ti propongo un patto: tu la smetti con i capricci e io ti prometto che guarirai. E un giorno io sarò la seconda persona cui annuncerai che sei incinta”. La signora sollevò lo sguardo da terra, mi guardò per un attimo e fece come per abbracciarmi. Poi si tirò indietro immediatamente, come se volesse risparmiarmi dal contagio. “Stai serena per me. Se avessi paura del contagio, farei meglio a cambiare mestiere. E io ho un patto da rispettare”. Ormai era fatta: avevo conquistato la sua fiducia. Mi avrebbe seguito in capo al mondo.
Per anni la signora è tornata in ospedale alla vigilia di Natale per la “cerimonia del panettone”, epilogo felice di una storia che scalda il cuore come il fiato del bue e dell’asinello nella grotta di Betlemme. Arrivava con decine di panettoni da donare ai degenti, ma non riusciva mai a consegnarli per la commozione; e così incaricava me. Per anni, il mio Natale è iniziato con il giro delle stanze con i panettoni in mano ed il racconto, ripetuto cento volte, della storia della bella signora risanata. Mentre lei, la signora, si rifugiava in medicheria tra gli amici infermieri a bagnare di lacrime le foto con il volto sorridente di un bellissimo bambino biondo.
Da un paio d’anni la signora non torna più a Natale, ma sono certo che non ha dimenticato la stanza numero 13, laggiù in fondo al corridoio. E adesso sono io a volerla ringraziare. Perché tutte le volte che ripenso a lei, alla rosa rossa sul comodino e alla catasta di panettoni nella stanzetta della caposala, rivedo quelle foto e quel volto: un secondo Gesù Bambino che torna ogni Natale per riaprire il mio cuore alla speranza.