Né Mattarella, né Grasso, né Alfano |La Sicilia invoca San Fiorello - Live Sicilia

Né Mattarella, né Grasso, né Alfano |La Sicilia invoca San Fiorello

Dal Foglio. Tribolano per il rubinetto a secco i cittadini sullo Stretto. Ma ai tre santi sugli altari delle Istituzioni, preferiscono lo showman amato da tutti.

Tribolano le taniche di Messina. E così a Milazzo, a Gela, ad Agrigento. E a Enna. Proprio quella Castrogiovanni che già Idrisi – il mastro geografo al seguito di Re Ruggero – segnò sulla cartina quale “ricca di laghi”.

Tribolano i cittadini ed è una secchia rapita quella che fa la differenza di Messina col resto d’Italia. E’ una secchia, sia pur di legno, sottratta al fetido pozzo del potere.

Tribolano le onde di Scilla e Cariddi. Scene già viste al tempo del terremoto – la Marina militare che presta soccorso – si ripetono ancora oggi. La nobile flotta, nello Stretto, si dedica all’approvvigionamento idrico delle isole minori, le Eolie, adesso però – forte di navi cisterna – deve consacrarsi all’isola maggiore: la stessa Sicilia di cui tribolano, accompagnando il suono fesso delle condutture vuote, le tinozze e le bottiglie. E i bidoni.

La frana sull’autostrada Catania-Messina è stata come una zampata data dal costone alla terra a significare una precisa minaccia. Smotta la superficie e figurarsi cosa può accadere alla rete sotterranea. E tribolano, perciò, i siciliani i cui santi non sono più quelli del paradiso assistenziale; non più quelli della soprapanza di comando; non più, dunque, santi come Mirello Crisafulli – funestato in ogni dove, ormai, perfino all’università dove gli hanno chiuso la facoltà di Medicina – ma santi santissimi distanti e lontani la cui aureola giammai dona speranza ai siciliani, piuttosto incute soggezione.

Santi che pure smuovono i cieli sono, questi di Sicilia. Sono tre – tra i più importanti degli altari delle Istituzioni – e sono Sergio Mattarella, Pietro Grasso e Angelino Alfano.

I siciliani tribolano e questi santi – assisi sui troni della più elevata dirittura morale – giungono col passo solenne della Nazione, e non certo con la camminata obliqua della contrada natia.

Santi, santissimi. Il primo è il capo dello Stato, il secondo è il presidente del Senato, mentre il terzo – ministro al Viminale – è quel che è: un Gianfranco Micciché riuscito.

Se ne stanno lassù, i beatissimi santi, e per tutte le volte che tornano quaggiù, smuovono i cieli coi loro aerei.

Certo, santi a cui votarsi servono in Sicilia. Manca l’acqua a Messina e il presidente della Regione, Rosario Crocetta, un santuzzo di mezza molatura, se ne parte per Tunisi. Non c’è dove sciacquarsi a Boccetta e tra Mattarella e Grasso è tutto un andare tra Vietnam e Londra mentre Alfano, invece di andare a vedere dove va a buttarsi l’acqua potabile di Gela – direttamente a mare, fino alle ondine della ridente San Leone – se ne sta sempre a Roma. Chiuso nello studio nello studio di Andrea Gemma, consigliere Eni e titolare di altri mille incarichi.

Ci fosse stato Totò Cuffaro, questa vicenda di secchi e di corde non sarebbe neppure cominciata. La sua più bella esternazione, al tempo del suo governo regionale, fu: “I bacini sono pieni”. Non dunque i baci, ma gli specchi d’acqua – artificiali e no, di questo parlava – tutti colmi grazie a Totò anche in piena estate. Questo proclamava nel far la guerra alla siccità e se solo ci fosse stato lui, i siciliani avrebbero trovato il loro santo scombinato e generoso ma, purtroppo, tra tutti i santi di Sicilia lui è quello in vincoli…

Mai come oggi, la Sicilia, ha avuto santi così importanti in paradiso. Ma sono a tal punto santi, questi tre, da mettere in moto, quando scendono, i cerchi – e così le sfere, e gli astri – con gli elicotteri che da Punta Raisi, lo scalo di Palermo, vanno poi ad alzarsi in volo per scortarli fino alle loro case.

Troppo importanti sono come santi. Ed è – quel loro essere tutti e tre sugli altari massimi – una conclamata impossibilità. Non ci si potrà lamentare di niente in Sicilia. Sono nell’empireo, sono un miracolo di per sé e non possono certo curarsi, proprio loro, di un contromiracolo così pezzente: nientemeno quello delle tubature che, in luogo del lacrimare, si asciugano.

E in quale liturgia, poi, dovrebbero prendersi pena del bicchiere vuoto se tanta e tale è la l’aura di questi tre santi? Il nemico non è la sete, bensì la mafia. La teologia è assai impegnativa e tanto più forte è la minaccia, tanto più in alto vola l’elicottero.

Con il nasino al cielo, da Palermo, verso ogni dove, assistiamo al volteggiare delle pale gustando il privilegio di un inedito. Una cosa così manco Federico Fellini – che pure ebbe nella statua del Cristo in elicottero un fotogramma di pura arte – oserebbe immaginarla e quel che i siciliani fanno con loro, essendone devoti, è dottrina di una fede mai sazia di riti. Santi sono e chiamano su loro stessi ciascuno una diversa processione.

Il più santo dei santi, Mattarella, gode di processioni in cui lui, fercolo di se stesso, avanza come in ostensione. Assistito non certo da pizzardoni in alta uniforme, com’è uso per i patroni dei paesi, ma già coi corazzieri, scende in Sicilia vivificando la beatitudine silente di un’estasi tutta estatica. Praticamente statica. E inamovibile.

Il secondo santo, seconda Carica sugli altari delle Istituzioni, fa tutto il contrario. Nella processione avanza secondo il ritmo dell’annacata. E si muove, perciò, sperimentando una sua collaudata scienza: il massimo del movimento per il minimo spostamento. Già abbiamo faticato su queste pagine. E’ sufficiente ripeterci: “E’ il metodo di chi più si smuove per meno danni fare, meno inconvenienti a se stesso. E’ tutto un tenersi nell’accortezza del passo sul terreno più scivoloso”.

Il terzo santo, infine, offre due iconostasi. La prima è quella che lo vede a cavallo. Novello San Giorgino, Angelino, schiaccia col piedino il diavolino. E’ un demonietto mafiosetto il cui codino, gli si attorciglia nello spadino. La seconda, più appropriatamente, lo vede bambinello nella mangiatoia. E’ più da novena, lui. E la mangiatoia è luogo consono alla ragione sociale del suo partito, l’Ncd, a maggior ragione in Sicilia dove, per fare un esempio da scuola, se da un lato dice sì a Crocetta, aiutandolo a reggere l’impostura nel suo ennesimo governo, dall’altro lo disconosce secondo la regola del trasi e nesci, ossia, esci ed entra.

Tribolano però i cordoli. E tribolano gli innaffiatoi. Adattati a modo di doccia. Ognuno, a Messina – e così a Milazzo, a Gela, a Enna – s’ingegna secondo necessità. Col tubo per il lavaggio dell’automobile, ci si fa il bidet. Col bacile, ci si lava la facciuzza. Per le estremità ci si organizza. In ogni casa è tutto un correre di bollitori. E sembra di tornare dentro le camere da letto del primo Novecento, nelle case di campagna, coi lavabi dal pianale di marmo, il boccale in rame, smaltato di bianco, e la struttura d’appoggio in ferro battuto (accanto alla vetrata del balcone da dove poi, all’occorrenza, godere il primo sole…).

Sembra. Invece è tribolazione. Nelle gebbie – le gabye, le vasche rettangolari cui ricorrere nei periodi di siccità estiva – i più fantasiosi gettano il robottino. E’ quello solitamente usato per la pulizia delle piscine ma vederlo arrivare nei giardini, ossia negli agrumeti, l’affare ruotato che fa glu glu sembra essere come un turibolo.

L’arsura non è altro che il cavare gocce da quella broda limacciosa. Essa è buona per nutrire tronchi e non per dissetarsi, ma – opportunamente depurata – per lavarsi si può ben usare. E sempre all’acqua chiunque pensa quando si vede sbucare Renato Accorinti, il sindaco di Messina, in infradito. Come se li laverà i ditini? A questo tutti pensano indietreggiando al suo cospetto. Ma giusto per riflesso condizionato. Il sindaco – così straccionista – ha, in effetti, la sua solita aria: tipico di chi ha perso la gallina e la va cercando in ogni anfratto del presepio.

Tribolano gli sciacquoni ma lui, il signor sindaco, si sa: è così. E’ la società civile. Per dirla con Peppino Sottile: ’u cielo ’u ittò, ’a terra ’u accampò.

Tribolano i siciliani e seppure il robottino è soccorrevole in cotanta tribolazione – a dispetto dei santissimi, distanti e silenti – poco può fare nel suo rovistare dentro la gebbia la cui zuppa accoglie sia pluvio, sia la sorgiva dell’Alcantara (estrema elemosina di rocce perfino generose ma rese sterili da viaggi fatti tutti da troppo lontano, con autobotti ormai ridotte al rango di miraggio).

Tribolano i siciliani e con loro non tribolano questi importantissimi santi e forse – per quanto uno è capo dello Stato, un altro è presidente del Senato, l’altro ancora è ministro dell’Interno – neppure sono stati informati se ancora dopo una settimana, né i telegiornali e neppure i quotidiani, la davano questa benedetta notizia del rubinetto spento a Messina.

Tribolarono a vuoto i siciliani. La notizia delle tubature a secco arrivava in prima pagina solo quando, congedandosi dal paradiso delle alte vette istituzionali – dopo cinque giorni – la Sicilia, non avendo più Totò, si affidava al vero santo di Sicilia: Rosario Fiorello. E lui, magnifico showman amato da tutti – bravo a dare emozione, buonumore, poesia e malinconia – lesto a rispondere, risulta essere oggi il risolutore nel calendario del popolo.

Tribolarono i siciliani e Fiorello, dunque, asceso alla santità riconosciuta dalla vox populi (vox Dei, va da sé), senza neanche smuovere i cieli a forza di elicotteri e aerei di Stato, prontamente accorso ha vieppiù accresciuto il suo credito di amore dei siciliani, applaudito dai fedeli, nella felicità di angeli, arcangeli, troni e dominazioni.

Come il gigante di un vecchio Carosello, così lui: “Fiorello, pensaci tu”. E così la Sicilia intera ha impetrato questo canto ricevendone in cambio soccorso e conforto.

Triboleranno ancora, i siciliani. Non ne mancano fruste nel paesaggio, e altre ne arriveranno. Cadranno piloni, smotteranno terreni, salteranno fognature, chiuderanno strade, mancheranno i ferribotte, si spegneranno i lampioni, mancheranno anche gli occhi per piangere ma da Messina a Trapani, da Castelvetrano a Pachino, da Ragusa a Marettimo, passando da Caltanissetta, i siciliani – messi da parte i santi, santissimi, troppo distanti e silenti – col rosario in mano si affidano a Rosario. Non a Rosario Crocetta, ma a Fiorello, va da sé. Manco a dirlo.

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