Nella casa morta che aspetta un’anima nuova per rivivere, non c’è più neppure il doppio ritratto del padre in uniforme e della madre che guardarono impotenti il figlio morire dal comodino accanto al letto. Qualcuno, tra le suore, i medici, il devoto arcivescovo Stanislao Dziwisz o Joaquin Navarro, i pochissimi che erano attorno al letto nel momento dell’addio, li ha portati via quella notte di sabato 2 aprile, prima che il Camerlengo sigillasse la porta dell’appartamento del Papa. Pensava certamente a reliquiari di future cripte, ma si preoccupava che nessun oggetto, nessun indizio, nessun segno personale restassero per ricordare all’uomo che tra pochi giorni, forse tra poche ore, dovrà tentare di prendere sonno nel letto sul quale per quasi ventisette anni dormì Karol Wojtyla, la verità di questo luogo: che ogni ospite qui è un passeggero, soltanto un inquilino transitorio nel residence più sublime della storia. L’appartamento del Papa Cattolico al terzo piano del Palazzo Apostolico.
Nelle stanze che un uomo riempì del proprio spirito e della propria vita come soltanto un altro Papa, Pio IX, fece in cinquecento anni di esistenza, non si trova quasi più traccia di lui, come fosse una stanza di hotel dopo il passaggio del personale delle pulizie. Visito le stanze che furono, e non sono più, di Giovanni Paolo II, e si preparano ad accogliere un nuovo ospite con la loro serena indifferenza, attraverso lo sguardo di una persona che tra quelle pareti visse accanto al Papa giorno per giorno nei quasi 27 anni di pontificato e ora me le illumina nei dettagli più affettuosi.
Si rimane sbalorditi e un po’ increduli al pensiero che il prossimo viaggiatore faticherà a trovare le impronte di chi l’aveva occupata per una intera generazione. In una città delle memorie assolute e ingombranti come è il Vaticano, dove ogni stipite e ogni capitello portano inciso il ricordo di un Pio, di un Paolo, di un Innocenzo o di un Benedetto, le sole due scritte che ricordino Wojtyla sono la targa appiccicata per l’insistenza di Navarro-Valls nel 1993 alla sala stampa e la lastra di marmo bianco sopra la tomba nelle Grotte, Joannes Paulus P.P. II, 2005. Nell’appartamento, nulla. O quasi. Perché così il viaggiatore polacco aveva voluto.
Nella magnificenza di un luogo, dove i suoi predecessori avevano chiesto ai Buonarroti e ai Sanzio e ai Botticelli di colorare un poco le pareti di casa, le stanze che attendono un Papa sono state lasciate per tre decenni nella tinteggiatura giallognola e scialba, che fa subito commissariato di P. S. o Ginnasio di un liceo statale. Il Pontefice che salirà la scalinata fino al terzo piano, se avrà gambe ancora giovani, o prenderà l’ascensore interno fino al vano centrale dell’appartamento, forse rimpiangerà lo sfarzo e l’ostentazione di molti arcivescovadi e sedi cardinalizie, quando vedrà questi ambienti da canonica qualsiasi, che parlano di preti, di parrocchia, perché Wojtyla era, voleva essere, un prete. La sala da pranzo con il lungo tavolo rettangolare dove il segretario particolare di Karol Wojtyla sempre sedeva a capotavola, e il Papa su uno dei lati lunghi, racconta di refettori, non di pranzi di stato.
I due si schieravano in quella formazione per un motivo semplice e domestico. Perché l´arcivescovo aveva il compito di maneggiare il telecomando del televisore, come fanno i mariti prepotenti in cucina, sistemato nell’angolo opposto di fronte a sé, e dunque alla sinistra del Papa. Doveva accenderlo al momento dei telegiornali. Ma soltanto per i titoli, mi precisa colui che mi conduce in questa visita, mai per l’intera durata o per i programmi. La televisione lo infastidiva, lui che pure tanto bene aveva imparato a usare il mezzo senza subirlo. Guardava qualche diretta sportiva, pezzi di Olimpiadi, ma non più calcio. Il calcio lo interessò soltanto quando un grande campione polacco come lui giocava ancora in Italia, nella Roma e nella Juventus, Zibì Boniek. Quel televisore dal quale tra poco un nuovo Papa guarderà se stesso – almeno nei titoli – è un antiquato modello a colori, niente cristalli liquidi o plasma, con tubo catodico e schermo bombato da 30 pollici, “regalato”, non comperato, dicono i miei occhi dentro la casa del Papa. È uno dei soli tre segni lasciati da lui, per ricordare la propria presenza. Soltanto quando il successore percorrerà il breve corridoio interno che dall’ascensore porta verso le tre stanze nelle quali alla fine Giovanni Paolo si era ridotto a vivere, riconoscerà il secondo segno, un’altra delle impronte umane lasciate.
Superata l’auletta nella quale riceveva gli sceltissimi fedeli che avevano assistito alla Messa o a un battesimo nella cappella privata e oltrepassati gli uffici dei segretari privati, l’arcivescovo Stanislao e don Mietek, entrambi ormai allontanati dal Vaticano, insieme con le suore, verso un anonimo ostello religioso sulla via Cassia, vedrà lo studio personale con la finestra più guardata del mondo. E noterà quel corrimano di ferro verniciato in bianco, un poco più basso del davanzale per non essere visibile, al quale il Papa doveva aggrapparsi per affacciarsi. Tutto quello che rimane di una lunga sofferenza. Il secondo segno. Non c’è stato il tempo per togliere i bulloni e levarlo.
Accanto allo studio delle benedizioni, nella camera da letto, sparite le carte rimaste sulla piccola scrivania sistemata tra le due finestre d’angolo che il segretario ha avuto l’ordine diretto dal Papa di bruciare, finestre da cui ogni tanto spiava la piazza durante il Giubileo per osservare quanta gente affluisse alla “Sancta Porta”, di lui, il nuovo Pontefice non troverà niente. Il letto ottocentesco, con la testata di legno intarsiato rivolta verso il lato di porta Angelica, dunque parallelo alla piazza, sarà stato perfettamente rifatto e squadrato dalle suore con precisione militare nella sovracoperta dorata, prima di essere anche loro sfrattate. Sul tavolinetto, affiancato da un alto crocefisso e illuminato da una lampada a braccio incongrua e squallida nella sua modernità da ufficio del catasto, non troverà stilografiche, sigilli, penne. Quando si svegliava e si alzava, per scrivere di getto cartelle e cartelle di pensieri sempre a mano, usava quei pennarelli con punta sottile di feltro morbido che si comperano a mazzetti in ogni cartoleria.
Il nuovo Papa sistemerà probabilmente le proprie minute icone famigliari, le foto di famiglia, al posto del piccolo portaritratti d’argento aperto a libro, con le foto di Josef Wojtyla, il padre, e di Emilia, la madre, ma la storia di quelle due fotografie, come me la racconterà Joaquin Navarro-Valls, per esserne stato testimone diretto, è bellissima. Fu nel 1989, quando Giovanni Paolo II andò in pellegrinaggio nel santuario spagnolo di Compostela, che qualcuno mise, tra i paramenti stesi per la Messa su un tavolo della sacrestia, quel portaritratti. Il Papa indossò gli indumenti sacri. Celebrò le funzioni solenni. Tornò in sacrestia per cambiarsi e stava per uscirne, quando si arrestò e disse «questo lo vorrei proprio». Nessuno osò contraddirlo, né chiedersi se quello fosse stato un dono misterioso di qualcuno che in Spagna aveva ritrovato le foto del padre e della madre polacchi. Da allora, per sedici anni, quell’oggetto è rimasto accanto al suo letto, fino alle notte tra il due e il tre aprile.
Dalla stanza, piccolissima, dove le tre suore polacche si erano ormai trasferite per essere più vicine a lui, negli anni sempre più spietati delle infermità squassanti, lo divideva il bagno che sicuramente sbalordirà colui che, nella prima notte di solitudine, dovrà usarlo. Un locale di forse quattro metri per cinque, rettangolare per accogliere la vasca da bagno attrezzata, come negli ospizi per anziani non più autonomi, la cabina doccia, che non usava più da tempo, il lavandino con la mensola sulla quale riponeva la quotidianità di ogni uomo, il rasoio da barba di sicurezza, che non adoperava più, il bicchiere con lo spazzolino da denti e la pasta dentifricia, tutto in bianco. Attorno, non maioliche, piastrelle, finiture almeno da albergo di prima classe, ma pareti anch’esse soltanto tirate a vernice.
Fuori dal bagno, una diecina di metri dividono il Papa dalla sala da pranzo, quella dove il segretario lo attendeva impugnando il telecomando, dopo che Wojtyla aveva trovato, nel corridoio, i quotidiani del mattino aperti, per vederne le prime pagine. Un’immagine che di nuovo richiama alla mente il ricordo comunque di pensioni di mezza montagna “tutto compreso” con i giornali per gli ospiti, non certo il cuore di un organismo che raggiunge oceani e continenti. Anche negli ultimi giorni, i segretari avevano disposto le copie fresche su quel tavolo, per diligenza, certamente, ma anche per il conforto della routine che consola coloro che circondano una persona cara che muore. Gli occhi della mia guida nella casa del Papa non ricordano di averli visti buttare via. Sarà il nuovo Papa a cestinarli, con quei loro titoli neri e lugubri che annunciavano l’agonia
Una cosa, certissimamente, neppure il successore getterà via con i giornali vecchi, la stampella di appoggio verso la balaustra, il televisore panciuto e magari il tubetto di dentifricio rimasto mezzo seccato nel bicchiere. È quello che troverà nella cappella privata del Pontefice, voluta e costruita da Paolo VI Giovan Battista Montini quasi nel centro planimetrico esatto dell’appartamento. Si guarderà attorno, con occhi ben diversi da quelli con i quali la guardò quando era cardinale invitato alle funzioni e alle Messe private. Si inginocchierà sull’inginocchiatoio di bronzo massiccio che lo stesso Montini fece collocare davanti all’altare.
Poggerà i gomiti su una corta ribaltina, come nei banchi di legno di tante chiese, dove si ripongono messalini e salmi. Se lo aprirà, lo troverà vuoto, ripulito anch’esso da monsignor Dziwisz, che avrà bruciato i foglietti che erano stipati dentro (o nascosti? Il futuro Santuario avrà fame di reliquie, di un Papa che non ha lasciato niente di tangibile dietro di sé). All’inizio del suo Pontificato, sotto quel ribaltino poggia gomiti, i segretari mettevano le lettere che arrivavano dai fedeli, sempre richieste di preghiere e di intercessioni per bambini molto malati o per coniugi troppo sani, per figli dispersi e per genitori farabutti. Soltanto quando divennero troppi, e sotto lo sportello non ci stavano più, gli assistenti dovettero trascrivere e stampare l’elenco dei nomi con una stampante da computer. Wojtyla leggeva silenzioso quei nomi pregando, senza che loro osassero immaginare che il Papa aveva davvero ricevuto e accettato le loro suppliche, trasmettendole.
Ma se quei nomi e quei fogli non ci sono più dentro l’inginocchiatoio di bronzo, resta il terzo e indelebile segno del viaggiatore venuto da Cracovia. Dobbiamo entrare nella cappella privata per vederlo, e osservare il crocefisso sopra l’altare. È una piccola icona di Maria, forse venti centimetri per trenta – la misurano gli occhi della nostra guida – che lui fece appendere sotto il braccio sinistro di Cristo, esattamente nella collocazione della “M” che poi fu disegnata nel simbolo scelto da Wojytla, la croce gialla in campo azzurro e la “M”. Fu quando entrò per la prima volta nella cappella, guardò la cornice di Cristo in croce sulle pareti, con la scena della Resurrezione soltanto sul soffitto, che costringe il celebrante a piegare la testa all’indietro per vedere la promessa del Cristianesimo, il Gesù risorto, che si accorse del fatto che in quel luogo non c’era una sola immagine della Madre. La pretese immediatamente, collocandola nella posizione che poi ispirò il simbolo araldico.
Non un’icona preziosa e solenne come la Vergine di Kazan con la sua storia e i suoi duecento diamanti incastonati, che un gruppo di cattolici nord americani comperò attraverso la casa d’aste Sotheby’s e gli regalò, prima che lui la restituisse ai Russi nella inutile speranza di commuovere la gerarchia Ortodossa. Una immagine modesta, e ormai un segno intoccabile.
«Non lascio dietro di me alcuna proprietà di cui sia necessario disporre» aveva scritto nel proprio testamento, e delle poche cose quotidiane «fate come vi sembrerà opportuno». Nella stanza da letto, quella notte i fratelli e le sorelle della fine si divisero fra di loro, senza litigare, a bassa voce, i gingilli e il bric-a-brac di una vita di prete senza valore, come le cosette che i parenti si passano di mano in mano, imbarazzati, senza decidere. La mia guida si prese «due ricordini», ammette con timidezza, con pudore. Ventisette anni e questo troverà il nuovo Pontefice, di chi lo ha preceduto. Un vecchio tv color; un corrimano da invalido; una iconcina per dare qualche tenerezza di femminilità a una cappella molto dura. Ha lasciato tutto come lo trovò, portandosi nella bara anche le vecchie scarpe che aveva fatto risuolare da poco con la gomma, per non scivolare sui marmi dei pavimenti. Non sarà un trasloco facile, per colui che dovrà riempire quella casa vuota.
Vittorio Zucconi