A quale trama dobbiamo credere? Alla bellezza nuova che Domenico Dolce e Stefano Gabbana hanno innestato sul corpo di una bellezza antica, raddoppiandola in meraviglia? Alla durezza della cronaca che narra dell’ennesimo scempio di cose e di memorie: il busto di Giovanni Falcone, oltraggiato allo Zen? Che cosa siamo noi? E, senza estremizzare troppo, siamo cittadini della sfilata, del brand, della suggestione, o sudditi del ‘ciaffico tentacolare’ che, ancora prima dello zio Johnny Stecchino, affliggeva i giorni di tutti?
Il dibattito si rinnova a ogni evento che porti il nome di Palermo in copertina. Nessuno è così veloce e così capace di coagularsi in irriducibili fazioni che avviano, subito, una furente battaglia di polemiche e controdeduzioni, sulla filigrana della rassegnazione o della rivoluzione.
Si stava peggio quando si stava meglio? I finestrini schermati che coprono la star in transito riscattano la cicca gettata in mare? Le modelle lunari sulla scalinate pareggiano il conto con i cantieri a capocchia che strangolano le strade e la viabilità? L’armonia a sprazzi risolve i dilemmi di una crudele e rinnovabile necessità?
E ogni volta – con una stanchezza sempre crescente – assistiamo alla consueta alchimia di termini logorati. Voi siete nemici della contentezza. E voi siete fighetti. I social friggono di un intellettualismo rapsodico che non va mai oltre un’idea rimasticata. Poi, cala il sipario, fino alla prossima guerra santa. Tutto si consuma nella diaspora. I nemici della contentezza protesteranno sempre e comunque, rassegnati nel compiacimento del piagnisteo: venisse al Politeama Dio per concedere un’intervista, si lamenterebbero per quella transenna in più. I fighetti considereranno le tante vittime di una quotidianità invivibile alla strega di complottisti e dinamitardi. Abitate a Mondello, gli autobus sono stracolmi e imprendibili, le piste ciclabili ricordano uno scherzo dell’urbanistica e non sapete come fare per il lavoro? Partite a piedi la sera prima, non turbate con la prosa testarda del disagio gli immacolati cavalieri della rivoluzione…
L’Orlandismo regnante da anni – ecco il nodo politico, di tendenza, la lente che filtra – è una cipria di sostanza. Non solo in Leoluca Orlando si riconosce, specchiandosi in un riflesso che punta al riscatto attraverso la costruzione dell’immagine. E come incipit va benissimo, perché il principio si traduce in turismo, in affari, in concretezza, nello sfruttamento sapiente di risorse che veicolano opportunità. Il percorso Arabo-Normanno, ‘Manifesta’, la capitale della cultura e dei giovani testimoniano un segno di rinnovamento che appena il più bieco provincialismo può minimizzare, se non, clamorosamente, disprezzare.
Tuttavia, dovrebbe esserci pure il seguito, lo snodo che affronta ciò che è necessario, che non può esaurirsi nella sistemazione più o meno provvisoria del bello. Dovrebbe sopravvivere l’onesto riconoscimento delle ombre, accanto alla luce, senza ghettizzare le voci contrarie quasi fossero la sintesi di una diserzione.
Non si vive di lamentele, ma neppure si campa di ‘Dolce & Gabbana’. E già si ode il mormorio corrucciato di fighetti e nemici della contentezza che non vedono l’ora di riprendere la contesa in sottofondo. Perché saremo sempre totalmente redenti o assolutamente irredimibili, quando forse potremmo essere tutti palermitani: soltanto questo.