PALERMO – È la sera del 20 maggio 2019. Antonino Nicosia e Michele Capano vanno a casa di Antonino Vaccarino, a Castelvetrano. I primi due fanno parte del comitato nazionale dei Radicali e sono da anni impegnati nella difesa dei diritti dei detenuti, il terzo è l’enigmatico ex sindaco di Castelvetrano che un mese prima, in aprile, era stato scarcerato. Il mese scorso è stato accolto il ricorso della Procura e lo hanno arrestato di nuovo: è indagato per favoreggiamento alla mafia perché avrebbe passato informazioni riservate su alcune indagini.
I tre decidono di trasferirsi in un ristorante. I carabinieri del Roso hanno piazzato una microspia nella macchina di Nicosia. Vaccarino gli ha rinnovato la proposta di fondare un nuovo partito finanziato dai servizi segreti, di cui l’ex sindaco è stato un collaboratore nel tentativo di arrestare Matteo Messina Denaro.
NOME IN CODICE SVETONIO
LE LETTERE DI MESSINA DENARO
Ecco il dialogo captato fra Nicosia e Capano: “Se ci prendiamo il partito tutti gli altri se ne possono andare a fare in culo… se il partito è nostro lo decidiamo noi che cazzo dobbiamo fare; “… dobbiamo vedere se ha veramente a disposizione le risorse economiche; “… secondo me no”; “… se ha quelli dei servizi”; “… ma i servizi non so poi se investono su questa cosa… in astratto potrebbe pure essere… lui aveva detto a suo tempo”; “… che aveva trenta, quaranta mila euro”.
Nicosia e Capano non hanno grande fiducia in Vaccarino, ma decidono di ascoltare la sua proposta. Salgono su due macchine diverse. Nicosia dice a Vaccarino: “Appresso a te non è una cosa buona, appresso a te ci spara questo Messina Denaro”. Fa ancora paura il ricordo della stagione in cui Vaccarino, nome in codice Svetonio, teneva una fitta corrispondenza con il latitante.
I tre cenano finiscono di cenare. Al momento dei saluti Vaccarino dice a Capano: “… io ritengo che ci siano tutte le condizioni, dopodiché, io dico, sono nelle mani di Dio”.
Da una parte Nicosia aveva l’ambizione di creare un suo partito, dall’altra voleva scalzare l’attuale garante siciliano dei detenuti, il professore Giovanni Fiandaca. Secondo il procuratore aggiunto di Palermo, Paolo Guido e i sostituti Francesca Dessì e Calogero Ferrara, Nicosia aveva alzato l’asticella del suo piano. In realtà dietro il suo impegno in difesa dei detenuti si sarebbe celata la voglia di aiutare i boss detenuti anche a trasmettere messaggi all’esterno. Particolarmente a cuore gli stava la sorte di Filippo Guttadauro, cognato di Matteo Messina Denaro, il cui avvocato è proprio Capano.
L’ergastolo bianco di Filippo Guttadauro
Le battaglie legittime del movimento in difesa dei diritti dei detenuti sarebbero divenute per Nicosia un pretesto per portare avanti gli interessi dell’organizzazione. “Nicosia il 1 febbraio 2019 si era recato insieme all’onorevole Giuseppina Occhionero (allora di Leu e oggi di Italia Vica) nella casa circondariale di Tolmezzo, ove si trovava Guttadauro – secondo l’accusa – per fargli visita, per rassicurarlo del proprio impegno relativo alla sua causa e, a tale scopo, proponendosi anche di presentare una interrogazione parlamentare per il tramite dell’onorevole”.
Scalzare Fiandaca era l’obiettivo di Nicosia: “… dobbiamo fare una manifestazione davanti a Palazzo d’Orleans… chiedere a Musumeci di buttare a pedate questo Fiandaca… riusciamo a farlo un pullman? Cinquanta persone… vediamo se ci riceve, intanto ora incontro a questo Bonafede, amici di Mazara…”. Il riferimento è al ministro della giustizia Alfonso Bonafede.
Nicosia avrebbe cercato la sponda di due deputati regionali del Movimento 5 STelle Roberta Schillaci e Matteo Mangiacavallo. Ai due politici, all’oscuro delle trame, dovevano essere spiegate le ragioni di una rimozione che doveva apparire necessaria. In più bisognava convincerli della necessità di cambiare i criteri di nomina del garante, non più espressione diretta della volontà del governatore, ma attraverso il voto in parlamento. I due deputati avevano chiesto a un avvocato di fare da intermediario con Nicosia per ascoltare le sue proposte e valutare anche quale tipo di impatto legale potessero avere. L’avvocato era il primo a mostrare perplessità, non comprendeva il perché della battaglia personale contro Fiandaca.
Nicosia per prima cosa pubblicò un post contro il professore su Facebook, poi indirizzò una lettera al governatore Musumeci: “… comunque farò avere ufficialmente ai deputati Mangiacavallo e Schillaci la lettera che abbiamo inviato oggi al presidente della Regione… Fiandaca non sta sviluppando l’attività io chiederò tra le righe la revoca dell’incarico al professore… ma se lei è filo Fiandaca è inutile parlarle se lei è innamorato di Fiandaca”, spiega all’avvocato.
Nicosia aveva anche un piano B. Su suggerimento di Gaetano D’Amico, anche lui da sempre e legittimamente impegnato in difesa dei diritti dei detenuti, pensava di farsi nominare come garante dei detenuti a Palermo (D’Amico gli diceva di avere già parlato con Leoluca Orlando, ma bisognava partire dalle basi, dall’istituzione del regolamento). E poi c’era da superare la concorrenza di Pino Apprendi, presidente dell’associazione Antigone e del comitato “Esistono Diritti” di cui fa parte lo stesso D’Amico e che da tempo chiede l’istituzione della figura garante.
Nell’attesa che l’iter burocratico facesse il suo corso, Nicosia si era fatto nominare dalla deputata Occhionero, ora indagato per falso. “Per entrare in carcere”, ammetteva Nicosia.