25 Novembre 2014, 06:00
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CATANIA – Violenza sulle donne, il racconto di un’operatrice del centro Thamaia. Pochi soldi e tanto spirito di sacrifico scandiscono le giornate delle donne impegnate a prestare servizio a chi subisce violenza. Tra banchetti al supermercato per pagare l’affitto, finanziamenti a termine e difficoltà di ogni sorta l’impegno delle operatrici è il motore del percorso di fuori uscita dalla violenza di tante donne catanesi e del lavoro di sensibilizzazione e formazione per agenti e personale sanitario. Un lavoro alacre che va avanti dal 2001 e non ha subito battute d’arresto, nemmeno davanti all’ennesimo momento di difficoltà economica: la fine di un finanziamento biennale che pure ha costretto le operatrici a ridurre gli orari.
Una ferita per una città che ha nel suo centro antiviolenza un fiore all’occhiello da valorizzare. Al netto di tanta retorica sulla violenza di genere, il Comune ancora non ha sbloccato i fondi regionali, incassati un anno fa, per indire un bando che per il centro farebbe la differenza. Come racconta, ai microfoni di Live Sicilia Catania, Vita Salvo, coordinatrice di Thamaia, in prima linea nel supporto delle donne vittime di violenza.
Qual è il suo ruolo all’interno del centro?
Sono una psicologa. Dal 2010 sono la coordinatrice del centro antiviolenza con il quale collaboro dal 2006.
Come funziona Thamaia? Partiamo da una giornata tipo, quali servizi offrite?
C’è una linea telefonica per le donne che subiscono violenza. Noi rispondiamo sia al numero verde nazionale (1522) istituito dal Dipartimento Pari Opportunità, sia al numero locale (0957223990). Le donne chiamano perché ci conoscono, visto che siamo sul territorio ormai dal 2001, o perché vedono la pubblicità del 1522 in televisione. Il centralino nazionale del 1522 passa la chiamata in base alla provenienza della donna. In altri casi il contatto con le donne avviene tramite la rete antiviolenza distrettuale perché il centro fa parte di una rete antiviolenza locale istituzionale insieme alle forze dell’ordine, gli ospedali e alcuni comuni (il distretto socio sanitario d16). In alcuni casi, insomma, le donne chiamano direttamente altri soggetti della rete. Ci sono due tipi di chiamate: quelle in emergenza (cerchiamo di capire se la donna ha una rete amicale) o no. Se la signora subisce violenza si prende un appuntamento. Noi non lavoriamo nell’emergenza lì viene attivata la rete antiviolenza. Il nostro lavoro è a più ampio respiro, aiutiamo le donne nel percorso di fuori uscita dalla violenza.
Quando ricevete la telefonata di una donna che subisce violenza da parte del marito. Che cosa fate?
Le fissiamo un appuntamento per un primo colloquio conoscitivo, facciamo un’analisi della domanda e una valutazione del rischio insieme alla signora. Ci tengo a sottolineare che il centro antiviolenza lavora in assoluto anonimato e, pure facendo parte di una rete istituzionale, non è una istituzione. Non si attiva nulla (ad esempio le segnalazioni) se le signore non vogliono, è un luogo protetto per le donne in cui si inizia un percorso di consapevolezza e si decide insieme cosa è più opportuno fare. Io, ad esempio, prospetto una serie di cose che si possono fare: la denuncia, la consulenza legale, ma deve essere lei a volerlo e a decidere. Poi si crea un progetto alternativo di vita per la signora, sempre insieme a lei, in base ad aspettative e desideri. C’è anche la possibilità di attivare un percorso di educativa genitoriale in cui si attiva un rapporto mamma/figli perché la violenza va un po’ a interferire con le capacità genitoriali. Le madri vengono svalutate sulle loro capacità genitoriali e non hanno la possibilità di decidere sulla quotidianità dei loro figli perché non gli è permesso oppure ci sono donne distrutte dalla violenza, attente a evitare che questa si scateni, da perdere di vista le esigenze dei bambini. Una volta fuori dalla situazione di pericolo, aiutiamo le signore a recuperare il rapporto con i figli. Esiste, inoltre, un gruppo di psicoterapia per le donne che subiscono violenza, ma questo sostegno è legato a una seconda fase e non lo fanno tutte, ultimato il percorso di fuori uscita, che è molto lungo, possono così elaborare il loro vissuto dal punto di vista psicologico.
Quali fattori rendono più difficile denunciare? Quanto pesa la dipendenza economica dal partner?
Per tutte le donne è difficile sporgere denuncia perché parliamo di relazioni affettive. La dipendenza economica è uno dei fattori che rende difficile interrompere una relazione, ma non è il solo. Al centro abbiamo un’utenza molto variegata a livello socio culturale. Anche le donne indipendenti dal punto di vista economico hanno difficoltà a denunciare i compagni.
Quante persone chiamano in media?
Abbiamo chiuso il 2013 con 341 casi di violenza. Non tutte le donne completano il percorso, ma è un primo passo importante, un modo per sperimentarsi, magari interrompono la relazione e si sperimentano con il loro stare da sole e prendono consapevolezza delle loro capacità. Non dimentichiamo mai che la violenza va a ledere l’autostima di queste donne. Non sono donne deboli ma persone forti che subiscono un danno. Nessuna purtroppo è immune dalla violenza.
A Catania esistono case rifugio a indirizzo segreto per operare in emergenza?
Non più. Noi l’avevamo fino al 2007 (casa Miral) poi per problemi economici, nessuno la finanziava, è stata chiusa. Noi facciamo affidamento alle casa di accoglienza che ci sono a Catania e provincia. Ma sono case che accolgono donne che hanno vari tipi di difficoltà e non sono a indirizzo segreto. Non sono strutture specifiche come richiederebbe la convenzione di Istanbul. La nostra casa rifugio è stata aperta grazie a fondi regionali legati al programma Pq nel 2004. Un progetto che ci ha permesso di gestire la casa rifugio per tre anni. Finito quel progetto, che ha anche implementato le attività del centro, Thamaia è stata portata avanti grazie al lavoro volontario delle operatrici. All’epoca facevamo i banchetti nei supermercati per pagarci l’affitto perché in quel momento non c’era nessun tipo di finanziamento, neanche privato.
Attualmente come mantenete in vita il centro?
Dopo quel periodo abbiamo vinto un progetto, istituito dalla tavola valdese con i soldi dell’otto per mille. Poi con il cinque per mille, fondi che arrivano da privati e che ci permettono di pagare l’affitto. Il grosso del lavoro che svolgiamo qui è assolutamente volontario. Si tratta di progettini da 15000 o 20000 euro. Abbiamo appena chiuso il progetto del Ministero delle pari opportunità che ci ha consentito di ampliare gli orari del centro: sei ore al giorno, sette giorni su sette. Un finanziamento biennale, i soldi sono sempre pochi per noi operatrici un rimborso spese e adesso che è scaduto e il nostro lavoro è del tutto volontario.
Avete anche ridotto gli orari? In quante operate?
Quindici o sedici operatrici, (avvocate, psicologhe, sociologhe) specializzate sul fenomeno della violenza su donne e minori. Siamo passate da quarantadue ore settimanali (tutti i giorni sei ore al giorno) a sedici ore settimanali (lunedì, mercoledì, venerdì mattina 9-13) e giovedì pomeriggio 15-19. Tutto si regge sull’attività volontaria. Attendiamo un finanziamento legato a un progetto che abbiamo vinto della tavola valdese che dovrebbe partire a gennaio.
Sbaglio o attendente anche soldi dal Comune di Catania?
Sì sono soldi stanziati dalla legge regionale affidati ai distretti che hanno una rete antiviolenza istituzionale per cui capofila è il comune di Catania che deve indire un bando per affidare i finanziamenti che si trovano nelle casse comunali da circa un anno.
Negli ultimi anni si parla molto più spesso di violenza sulle donne (fenomeno che è sempre esistito). Avete avuto riscontri in termini di aumento di persone che si rivolgono a voi?
Sì questo dipende dal lavoro di sensibilizzazione, formazione e informazione che si è fatto nel corso degli anni. Il centro fa un lavoro di formazione rivolto agli operatori dei servizi. Se dieci anni fa una donna che si rivolgeva alle forze dell’ordine veniva rispedita a casa sentendosi dire: “Mangiatevi una pizza, tutto si risolverà”, oggi non è così. Gli operatori sanno riconoscere gli indicatori della volenza perché spesso le donne vanno al pronto soccorso o al servizio sociale e non dicono di avere subito violenza. Il professionista in grado di riconoscere gli indicatori invita la persona a recarsi al nostro centro. Inoltre, Thamaia porta avanti il lavoro di prevenzione nelle scuole: se vogliamo ridurre la violenza dobbiamo arrivare prima della violenza. Bisogna lavorare sulle pari opportunità e il rispetto tra i generi: la volenza sulle donne non dipende da fattori patologici, ma culturali che mettono su un piano diverso uomini e donne.
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25 Novembre 2014, 06:00