PALERMO – I carabinieri registrano le voci degli indagati del blitz di Santa Maria di Gesù. Ricostruiscono gli organigrammi e gli affari del clan. Nelle pieghe delle intercettazioni scovano pure la possibile chiave di due delitti ancora senza colpevoli. Nel 2011 sotto i colpi dei killer cadeva Giuseppe Calascibetta. Due anni dopo toccava a Francesco Nangano.
L’omicidio di Giuseppe Calascibetta
Non lo citano per cognome. Parlano di Peppuccio, u facciu i umma. È di Giuseppe Calascibetta, soprannominato faccia di gomma che Mario Marchese e Vincenzo Adelfio, arrestati stamani, stanno parlando. Il capomafia di Santa Maria di Gesù fu crivellato di colpi sotto casa, in via Belmonte Chiavelli. Tra i suoi compiti c’era quello di mantenere in carcere Ruggero Vernengo, considerato uomo d’onore e scarcerato nel 2012: “Perché li aveva da lui i picciuli”. Subito dopo, pronuncia la frase che apre il fronte investigativo: “.. su livaru in miezzu i pieri” (se le sono tolto dai piedi”). Seguita da un ulteriore chiarimento: “… ne ha combinato una appresso all’altra… si fotteva un po’ di soldi… tutti… ci hanno perso tempo…”.
Eccolo, dunque, il possibile movente del delitto. Calascibetta avrebbe pagato con la vita la pessima gestione dei soldi del clan. Adelfio racconta un altro episodio: “Trentamila euro… gliel’ho fatti dare io da questi di là… dalla pompa di benzina… diecimila euro là… li hanno persi… che se li sono fottuti lì sotto… e gli altri venti se li è fottuti tutti lui…”. L’ammanco di denaro era stato riferito a Giuseppe Greco, arrestato lo scorso dicembre con l’accusa di essere il nuovo capomandamento. Non solo, nei mesi successivi Calascibetta aveva imposto il pizzo ad una serie di personaggi di Belmonte Chiavelli: “… u Bonaciedda e compagni… u…u Castidduzzu e compagni gli davano i soldi”.
L’omicidio di Francesco Nangano.
La sera del 16 febbraio 2013 i sicari uccidevano Francesco Nangano all’uscita di una macelleria di via Messina Marine. Ancora una volta sono le microspie a suggerire una pista investigativa. Gli intercettati sono Mariano Marchese e Gaetano Di Marco, titolare di un deposito di marmi e luogo dei summit del clan. Stavolta, però, sul piatto mettono solo le loro impressioni: “… questo che hanno ammazzato?… un magnaccione … fimminaru… andava con cu e ghiè”. Nangano era stato pure avvisato: “Gli hanno bruciato… tutte cose”. Poi Marchese ipotizza che per il delitto possa essere stata necessaria l’autorizzazione dei fratelli Graviano: “Può essere che fu un messaggio di Filippo… o di Giuseppe”.
L’omicidio di Giovanni Battista Tusa
Il 19 marzo 2013, poco dopo le 14, in via Villagrazia, veniva assassinato Giovan Battista Tusa, uomo d’onore della famiglia di Villagrazia e sorvegliato speciale. Sembrava un delitto di mafia. Sembrava, appunto. Alle 14.38 dello stesso giorno le telecamere registrano l’arrivo di Mariano Marchese nel deposito di marmi di Francesco Di Marco. Si appartano nell’ufficio e Marchese chiede che venga convocato Antonino Pipitone. Poi, spiega il movente del delitto: “Vincenzu u Gambinu a suo cognato… si è litigato con suo cognato… Vincenzo Gambino… e Giovanni Tusa… è pazzo quello… e ci sono tutti i carabinieri… sbirri… polizia… magistrato…”. La mafia non c’entrava. Il cognato aveva perso la testa e aveva ucciso Tusa. L’anziano capomafia era stato informato subito. Il problema da affrontare è un altro: allontanare gli investigatori dalla zona. Come? “Si deve andare a consegnare che deve fare… che deve fare…”. Due giorni dopo Gambino, 80 anni, si presenta alla polizia. “Sono stato io, ho ucciso mio cognato”. Avevano un pessimo rapporto e l’ennesima lite aveva fatto scattare la sua follia omicida. Caso risolto. Almeno per il momento gli sbirri se n’erano andati.