PALERMO – Se di errore si tratta a commetterlo è stato l’Istituto nazionale di previdenza sociale. Pertanto l’Inps non può chiedere la restituzione dei soldi ad una donna che li ha ricevuti e incassati in buona fede. Così ha stabilito una sentenza del giudice onorario del lavoro Claudia Gentile.
La donna è tutrice legale della figlia, beneficiaria di una pensione di invalidità. L’istituto ha fatto i conti e ha chiesto retroattivamente la restituzione a rate di poco più di duemila euro. Ha ritenuto, infatti, che l’acquisizione di una pensione di reversibilità da parte della madre avesse alzato il reddito e di conseguenza non le spettava la maggiorazione sociale.
Il giudice ha accolto il ricorso della donna, assistita dall’avvocato Salvatore Costa. L’azione di recupero della somma è stata legittima? Il giudice richiama l’orientamento della Cassazione secondo cui, le somme possono essere richieste “solo a partire dal momento in cui venga comunicato il provvedimento che accerta il venir meno dei requisiti che avevano in precedenza legittimato l’erogazione del beneficio”.
Non c’è stato dolo. Nello stesso libretto veniva canalizzata la pensione di reversibilità della madre e la pensione di invalidità della figlia. Da qui il presunto superamento della soglia reddituale come se l’entrata fosse imputabile alla stessa persona, quando in realtà si tratta di prestazioni erogate a due persone diverse che però confluivano nello stesso libretto postale.
“Stante la buona fede e il legittimo affidamento della percipiente” avrebbe dovuto essere l’Inps a non erogare la somma e dunque adesso non può chiederne la restituzione.

