Palermo, città chiusa - Live Sicilia

Palermo, città chiusa

Palermo chiude. I dipendenti di fortezze commerciali un tempo grandi annaspano. Avevano un lavoro. Gli resta la carità. La crisi morde coppie temprate dagli anni. Lui e lei si erano conosciuti tra i banconi di un grande magazzino. Lui racconta la storia e gli viene da piangere. Lei ascolta in silenzio. E qualcuno dei nostri commentatori scrive che sarebbe meglio buttare a mare i vecchi per lasciare spazio ai nuovi. Non c’è solidarietà. Il rumore di fondo che sovrasta la drammaturgia delle scena sa di cannibalismo, di ossa addentate con ferocia. Ci stanno insegnando la brutalità reciproca. Chi regge le leve del mondo preferisce che i poveri si scannino l’uno con l’altro, che non ci sia coscienza di comunità. Non servono pensieri, né occorrono sentimenti nell’applicazione del precetto economico, a scapito della reminiscenza umana. Una sana economia, certo, è impalcatura necessaria. Ma qui siamo molto oltre. E’ la fredda disperazione del calcolo che non lascia altre vie d’uscita. I morti sul terreno li conteremo tra poco. Nessun terapeuta sembra in grado di fornire una ricetta utile. C’è il male, non c’è rimedio.

Palermo cade a pezzi, poco a poco. Si stringe in un’agonia dolorosissima. Due tremende congiunture l’hanno assassinata: l’avvento contemporaneo di un ciclo tremendo e di un sindaco insipiente. La sorte ha spento le luci. La politica non ha nemmeno provato a riaccenderle. Attraversiamo le strade costellate di porte sbarrate e saracinesche abbassate. Non abitiamo una città. Solchiamo un cimitero in stile ungarettiano. Le idee nascono gelide. Le sensazioni stupiscono per la facile progressione della tristezza. La speranza è lontana. Le facce sorridenti sui cartelloni elettorali suonano come una bestemmia.

Ci scrivono in tanti. Inviano messaggi come letterine per un sidereo Babbo Natale. Ogni minimo pezzullo sul lavoro fa il pieno di commenti e lettori. Piovono curricula sgrammaticati che somigliano a implorazioni. Non esiste più la riflessione. C’è solo la reiterata pazzia delle mani che gettano messaggi in bottiglia nel grande mare del web. I naufraghi sanno già che nessuno verrà a salvarli dalle sabbie mobili dell’isola deserta. Ma insistono. Tentano l’oppio di un’illusione.

Palermo chiude ed è un po’ colpa di tutti. Di amministratori e imprenditori che spesso non hanno tenuto fede al fondamento etico di mestieri impegnativi. E la croce dobbiamo portarla pure noi giornalisti, così pavidi nel denunciare, così lenti nel capire. Noi che spieghiamo la vita agli altri e siamo ignoranti. Se un politico non solleva la polvere dello scandalo, non lo consideriamo. Se mette pepe nei comunicati, gli rimproveriamo l’inaffidabilità. Noi che ci sentiamo al sicuro non troveremo scialuppe di salvataggio sull’orlo della nostra tastiera.

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