In piedi, entra il boss: l'omicidio Di Giacomo e la sceneggiata

In piedi, entra il boss: l’omicidio Di Giacomo e la sceneggiata

Un episodio di alcuni anni fa che oggi va riletto

PALERMO – C’è una scena che va riletta alla luce dell’arreso di oggi per l’omicidio di Giuseppe Di Giacomo. Una scena che Livesicilia aveva ricostruito nel 2015. Tra i protagonisti c’era anche Onofrio Lipari, ora accusato del delitto.

Quando arrivò il killer ergastolano tutti gli altri detenuti si alzarono in piedi. Un segno di rispetto e di distensione in quella che si annunciava come un’udienza ad alta tensione. Non a caso era stato previsto uno spiegamento di forze raramente visto in un’aula di giustizia. Una quarantina di persone, fra poliziotti penitenziari e carabinieri, avevano il compito di assicurare che filasse tutto liscio al processo contro il clan di Porta Nuova.

Giovanni Di Giacomo, fratello di Giuseppe ammazzato per le strade del rione Zisa, nella stessa aula, anche se separati da un vetro blindato, con Tommaso Lo Presti, indicato dal neo pentito Vito Galatolo come il possibile mandante dell’omicidio.

Emanuele ed Onofrio Lipari, padre e figlio, collegati in videoconferenza per evitare contatti con Di Giacomo che, così hanno svelato le microspie dei carabinieri, su di loro voleva scaricare la sua collera. Voleva vendicarsi perché li riteneva responsabili della morte del fratello. Una folla di parenti dentro e fuori dal Palazzo di giustizia. Insomma, di motivi di preoccupazione ce n’erano parecchi. Ed invece davanti al Giudice per l’udienza preliminare Lorenzo Iannelli si avvertì solo il clima pesante. Andò in scena, però, tutta la simbologia mafiosa.

Si cominciò all’esterno del Palazzo. Davanti all’entrata laterale riservata ai detenuti che arrivavano a bordo dei mezzi della polizia penitenziaria si radunò una folla di persone. Sotto processo c’erano Tommaso Lo Presti, classe 1975, detto ‘il pacchione’, Emanuele Vittorio ed Onofrio Lipari, Nunzio Milano, Marcello e Giovanni Di Giacomo, Stefano Comandè e Francesco Zizza.

I parenti attendevano per rubare uno sguardo attraverso i vetri blindati. Giovanni Di Giacomo ritornava in città dopo una lunga assenza. Al suo ingresso in aula si alzarono tutti in piedi. Venne fatto sedere assieme al fratello nel gabbiotto blindato. Un vetro spesso lo separava da Lo Presti e dagli altri detenuti. I loro sguardi non si incrociarono. Mai.

Due giorni prima si era saputo che i Lipari sarebbero stati spediti a Napoli per ragioni di sicurezza. Dopo la costituzione delle parti Onofrio Lipari chiese la parola. Ci teneva a spiegare che lui non aveva “motivi di astio contro nessuno e nessuno né ha contro di me”. Non c’era motivo per allontanarlo da Palermo.

Era il secondo segnale, dopo quel “tutti in piedi”, per dimostrare che non soffiano venti di guerra.

Qualche mese prima dell’udienza, i carabinieri del Nucleo investigativo, carpirono segnali di pericolo. Dovettero intervenire in fretta per evitare il peggio. Ed eseguirono un fermo, sfociato poi in processi e condanne.

Il 17 aprile 2015 Giovanni Di Giacomo aveva ricevuto un telegramma in carcere. Il mittente era il fratello Marcello: “Caro Gianni la salute del bambino tutto bene in unico abbraccio ti vogliamo bene”. Secondo gli investigatori, altro non era che la comunicazione dell’imminente messa in atto del piano di morte. Da qui l’urgenza dell’intervento dei militari.

Dopo l’arresto di Alessandro D’Ambrogio, considerato il leader del mandamento di Porta Nuova, Giuseppe Di Giacomo aveva scalato le posizioni di potere, forte della parentela con il fratello, storico componente del gruppo di fuoco di Pippo Calò. Nei mesi della sua ascesa, frenata con il piombo, erano sorti malumori.

Ai Di Giacomo non era piaciuto l’atteggiamento dei Lipari, ritenuto “troppo distante”, e il loro obiettivo di mettere le mani sugli incassi delle sale scommesse della vittima. E così scattò la reazione. Giovanni Di Giacomo ordinò al fratello di riferire a Tommaso Lo Presti, che nel frattempo sarebbe tornato a comandare, di uccidere i Lipari: “… si preparano fanno l’appuntamento e mentre c’è il discorso fanno bum bum e s’ammogghia tutto”.

Lo stesso Lo Presti che, ipotizzando il più classico dei voltafaccia, potrebbe avere “tradito” i Di Giacomo. Furono le dichiarazioni di Vito Galatolo, boss dell’Aquasanta a complicare le cose. “Giuseppe Di Giacomo aveva offeso Tommaso Lo Presti che voleva impadronirsi del mandamento e per questo fu ucciso – ha messo a verbale il boss dell’Acquasanta -. Lui mi dice il Graziano (Vincenzo Graziano, mafioso dell’Acquasanta di recente finito di nuovo in cella ndr) che l’omicidio Di Giacomo è stato avvenuto che forse… siccome era uscito Tommaso Lo Presti ‘u pacchiuni’, figlio di Totuccio, ed era uscito male intenzionato con tutti dice che si doveva prendere tutte cose nelle mani lui… ci dissi e che cos’è?… . ‘… è stato interno, forse c’è stata una riunione… mi hanno riferito che c’è stata una riunione’”. Galatolo ha raccontato che Graziano avrebbe saputo “che forse il Di Giacomo Giuseppe gli avrebbe dato o uno schiaffo a Lo Presti Tommaso, il pacchione, o lo avrebbe offeso con la bocca… ci dissi è per questo lo hanno ucciso a Giuseppe?’. ‘Sì dice, ci sono stati discorsi interni, però il pacchione so… mi ha riferito questo fatto che è male intenzionato, perché si doveva prendere tutte cose nelle mani’”.

Le microspie rivelarono che Giovanni Di Giacomo era pronto alla vendetta. Uccidere fa parte del suo Dna. Fu lui ad ammazzare Natale Tagliavia, trovato incaprettato il 18 settembre ’81, e Filippo Ficarra, vittima della lupara bianca nel 1982. In carcere, su ordine di Totò Riina, Pippo Calò e Michele Greco, aveva cercato di avvelenare Gerlando Alberti “u paccarè”, lo storico capo della famiglia di Porta Nuova. Nonostante sia all’ergastolo da decenni Di Giacomo avrebbe continuato a dire la sua nelle dinamiche del mandamento.

Al suo ingresso in aula, in quel giorno di dicembre, gli altri detenuti si alzarono in piedi in segno di rispetto. O forse era soltanto una messinscena, una sceneggiata mafiosa.


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