Palermo, nel regno del racket | Ma c'è chi denuncia - Live Sicilia

Palermo, nel regno del racket | Ma c’è chi denuncia

Estorsioni a tappeto. Un racket che non dà scampo con la sua morsa. Il ritratto che emerge dal blitz di Palermo è terribile. Ma c'è chi ha la forza di ribellarsi.

Il blitz di mafia
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PALERMO – Da via Papa Sergio a via Alcide De Gasperi. La richiesta del pizzo era a tappeto da parte della cosca che comandava nel regno che fu dei lo Piccolo. Non veniva risparmiato nessuno, dalle piccole botteghe alle imprese edili, fino alle parruccherie e al titolare della società che sta realizzando la multisala più grande della Sicilia nell’ex impianto Coca Cola: lui decise di non cedere e denunciò tutto. La maxi operazione interforze “Apocalisse”, la più vasta degli ultimi anni, ha fatto luce sul giro di estorsioni che seminava il terrore nella zona in cui comandavano i boss di Tommaso Natale-San Lorenzo e Resuttana, sotto l’egemonia del capomandamento, Girolamo Biondino. Una mappa fittissima di esercizi commerciali colpiti da trentaquattro estorsioni, ventuno tentate dagli esattori del pizzo, ma cadute nel vuoto.

A partire da quella all’ex calciatore Rosanero Gaetano Vasari, da diversi anni tiolare del panificio “Caldopane” a pochi metri dallo stadio Renzo Barbera. Nella sua attività, era il 27 dicembre del 2012, si recarono Domenico e Gregorio Palazzotto, Calogero Ventimiglia e Nicolò Di Maio. I quattro, dentro la loro auto, escogitavano un modo per incontrare l’ex calciatore. In base a quanto emerso dalle indagini, avevano già tentato un primo “approccio” per chiedere il pizzo, ma Vasari non aveva dato loro corda: una reazione che non avevano dimenticato. Per questo volevano rintracciarlo di nuovo. La loro intenzione era quella di sorprenderlo all’uscita dal negozio: “…E va bene e lunedì noi altri che ci stiamo ad aspettarlo io penso che all’una e mezza…verso l’una e mezza penso che questo esce giusto è? – Diceva Di Maio a Palazzotto -. “Ci deve andare a mangiare…o esce per andare a fare gualche cosa. Lunedì lo maltrattiamo…la fortuna sua è che c’era il forno pieno di persone, perché sarei girato dal bancone”. Ma quell’incontro non avvenne.

Le indagini condotte dal pool di magistrati composto dai sostituti Francesco Del Bene, Amelia Luise, Gaetano Paci. Annamaria Picozzi, Dario Scaletta e dal procuratore aggiunto Vittorio Teresi hanno fatto venire a galla decine di tentativi d’estorsione, alle quali si alternavano minacce verbali, intimidazioni con atti incendiari, imposizioni di forniture. A dimostrazione che l’attività estorsive non è per Cosa nostra soltanto uno strumento di finanziamento, ma anche di supremazia e controllo del territorio.

Tra le attività finite nel mirino, un bar in via Papa Pio XII, al quale titolare Lorenzo Flauto, su disposizione di Filippo e Agostino Matassa e Gregorio Palazzotto chiese duemila euro, oltre a duecento euro al mese. Pochi mesi dopo furono personalmente i cugini Palazzotto ad entrare in azione: volevano imporre il pizzo al titolare di un’agenzia funebre in via Sampolo e avevano già programmato di dividersi i soldi al cinquanta per cento. Le intercettazioni hanno svelato tentativi di estorsione da un capo all’altro della città, e così, i boss si spostavano anche in via Empedocle Restivo.

Nel mirino c’era una pescheria: il proprietario avrebbe dovuto consegnare trecento euro. Poi fu la volta del titolare di una impresa edile che aveva effettuato alcuni lavori di ristrutturazione presso un centro di telefonia in viale Strasburgo, ma anche quella di un negozio di frutta e verdura a pochi metri, più volte raggiunto e minacciato dai fratelli Palazzotto e Salvatore D’Alessandro, anche lui finito in manette durante il maxi blitz. Era il dicembre 2013. Il clou del periodo in cui si concentrarono le estorsioni.

Sostentamento principale della cosca smantellata dalle forze dell’ordine, che con quel denaro pensava anche al mantenimento dei familiari di coloro già finiti in cella negli scorsi anni. In quest’ottica, fonte di “reddito” potevano diventare anche la sala biliardo di piazza Bordonaro ed un negozio di pizzi e ricami in via Trentacoste, il titolare di quest’ultimo fu costretto a pagare quattrocento euro. Ma nella morsa delle estorsioni c’erano anche gestori di distributori di benzina e saloni di bellezza. Una parruccheria di viale del Fante ad esempio, ai quali titolari Giovanni Beone e i Palazzotto avevano chiesto ottomila euro. Nel mirino degli esattori del pizzo era finito pure un benzinaio di via Nicolò Garzilli e i titolari della sala ping pong di via Notarbartolo: in questo caso la richiesta era stata di cinquemila euro “una tantum” e di quattrocento euro al mese. Soldi mai arrivati nelle casse di Cosa nostra, in base a quanto emerge dalle indagini. E se la vittima si ostinava a non abbassare la testa, arrivavano le maniere forti. A partire dai furti. Il legale rappresentante di una ditta di commercializzazione frutta e verdura fu ricattato senza particolari giri di parole: se non avesse pagato il pizzo ad Antonino Salerno, non avrebbe riavuto indietro il furgone che, alcune sere prima, era sparito con l’intero carico di merce.

Minacciati anche i titolari di una macelleria-salumeria in via Marche, quelli di un negozio di alimentari in via Cardinale Luigi Lavitrano e il proprietario dell’autolavaggio e parcheggio sito alla Via Liguria. Se rifiutavano la “messa a posto” rischiavano danneggiamenti e intimidazioni di ogni tipo. Proprio come accadde alla discoteca “Scalea Club” tre anni fa, quando l’ingresso fu bloccato con l’attack: Guerrera e Sardisco tentarono in tutti i modi di mettersi in contatto più volte col titolare, di metterlo con le spalle al muro attraverso minacce e atti minatori.

Un incendio fu appiccato invece al locale “Solemar” di viale Cristoforo Colombo, all’Addaura: le intercettazioni svelano che ad agire furono Domenico Palazzotto e Ciro Enea, che il 10 ottobre 2012 avrebbero danneggiato l’entrata. Ma il tunnel del pizzo non si fermava qui. Il mega clan raso al suolo nell’operazione “Apocalisse” seminava il terrore anche in viale Campania, minacciando il gestore di un altro bar e il titolare di una impresa edile che avrebbe dovuto versare mille euro per continuare ad eseguire i lavori in un cantiere in viale Lazio. Ma il pizzo faceva anche mangiare con lo sconto i boss. La quota mensile dovuta da un ristorante in piazza Bordonaro subiva infatti variazioni in base a quanto veniva “snellito” il conto a tavola a chi faceva parte del clan.


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