Palermo, il delitto Fragalà, i mandanti mafiosi rimasti nell'ombra Live Sicilia

Palermo, l’omicidio Fragalà e i mandanti rimasti nell’ombra

La sentenza di appello emessa nei giorni scorsi non chiarisce tutti i punti

PALERMO – Manca l’atto finale della Cassazione. Se anche i supremi giudici dovessero confermare, e dunque rendere definitive, le condanne per l’omicidio dell’avvocato Enzo Fragalà mancherebbe comunque il tassello dei mandanti. O meglio, se davvero c’è stato, dell’ulteriore livello mafioso da cui arrivò l’ordine per il pestaggio mortale del penalista.

La sentenza della Corte di appello di Palermo, confermando quattro condanne e due assoluzioni, dovrebbe avere accolto la ricostruzione del processo di primo grado. Ed è una ricostruzione che conferma il movente mafioso della punizione che divenne un massacro. Fragalà era un avvocato “sbirro” perché cercava difendendo al meglio i suoi assistiti finiva per danneggiare gli interessi di Cosa Nostra. La sua punizione doveva suonare come un avvertimento per l’intera avvocatura palermitana.

La pista mafiosa è stata presente fin dall’inizio delle indagini e affondava le radici nel popolare rione del Borgo Vecchio, mandamento mafioso di Porta Nuova. Ne parlava già Francesco Chiarello, il cui racconto però è crollato nella sua attendibilità. Poi sono arrivate le dichiarazione di Antonino Siragusa, accolte in primo grado e, a giudicare dal verdetto, anche in appello.

Siragusa si autoaccusò di avere chiamato lo studio Fragalà per verificare i movimenti dell’avvocato. Era stato lui ad accompagnare con la sua Smart Abbate in via Turrisi. Questi indossò il casco e bastonò la vittima.

Il giorno che ricevette l’incarico di pestare il penalista con un grosso legno Siragusa vide Abbate appartarsi con Francesco Arcuri davanti a un’agenzia di scommesse nella zona del Borgo Vecchio. Arrivò l’ordine: “Si può fare”. Parole che confermerebbero il ruolo di mandante ad Arcuri.

Siragusa ricorda di avere chiesto ad Abbate “perché dovevamo andarci noi e non potevamo mandare qualcuno. Lui rispose che doveva farlo personalmente perché ‘Fragalà invece di fare l’avvocato, faceva il carabiniere’”.

Arcuri, dunque, sarebbe stato il mandante, tirato in ballo da Siragusa (anche se solo in un secondo momento) che disse di avere partecipato in prima persona al pestaggio. Negli anni le voci carcerarie e i racconti de relato di altri collaboratori di giustizia – non solo Chiarello – tirarono dentro le indagini due nomi che contano: Antonino Rotolo, capomafia di Pagliarelli, e Gregorio Di Giovanni, boss di Porta Nuova.

Fragalà assisteva Salvatore Fiumefreddo e Vincenzo Marchese, considerati prestanome di Rotolo. Durante l’arringa difensiva – avvenuta quattro giorni prima dell’agguato – Fragalà citò la lettera che Antonietta Sansone (moglie di Rotolo) scrisse a Marchese per scusarsi del suo coinvolgimento nelle vicende giudiziarie.

E così sarebbe scattata la punizione. Si mossero gli uomini di Porta Nuova che finirono per fare un favore anche ai rotoliani. C’era un profondo legame fra i due clan. Basti pensare che Arcuri era grande amico di Gianni Nicchi, figlioccio di Nino Rotolò. La sera prima dell’arresto del latitante nel covo di via Juvara, a due passi dal palazzo di Giustizia di Palermo, i due se n’erano andati in giro per la città, di pub in pub, in sella ad una motocicletta.

Fu Chiarello a dire in riferimento al pestaggio di Fragalà che “Gregorio (Gregorio Di Giovanni) lo doveva fare già prima questo, anzi si diceva quando c’era Gianni Nicchi”. Chiarello, però, è stato smentito dai giudici di primo grado e con tutta probabilità anche da quelli di appello che devono ancora scrivere le motivazioni. Smentito non solo in questo processo ma anche in altri, nel corso dei quali aveva infarcito i suoi racconti con particolari lontani dalla realtà.


Partecipa al dibattito: commenta questo articolo

Segui LiveSicilia sui social


Ricevi le nostre ultime notizie da Google News: clicca su SEGUICI, poi nella nuova schermata clicca sul pulsante con la stella!
SEGUICI