Nel bene e nel male, abbiamo tutti a che fare con i parenti. I legami familiari sono complessi, con aspetti antropologici, psicologici, sentimentali, economici; spesso sono difficili; eppure, nessuna struttura sociale è diffusa quanto la famiglia. E proprio la famiglia, nell’ultimo anno, si è trovata ad affrontare una realtà lontana dalla quotidianità vissuta all’insegna del “dover fare”. La giornata-tipo di genitori e figli (è incredibile come sembri sia passato un secolo da quando stare a casa era un piacere e non un obbligo), aveva tempi, ora dilatati e vuoti, scanditi dal lavoro, dalla scuola, dagli amici. Col trascorrere dei mesi, l’adattamento alle regole introdotte dalla necessità di contenere la pandemia si è stabilizzato, nell’impossibilità di fissare date certe per la soluzione del problema sanitario. Ora, piuttosto che lasciare alla casualità il governo della nostra esistenza, è importante acquisire la consapevolezza del cambiamento. Troppo spesso teatro di conflitti, la famiglia deve recuperare la vocazione di custode degli affetti, e la casa quello di rifugio ove rafforzare il senso di appartenenza. Le persone che formano una famiglia abitano insieme, e abitare (da habitare, iterativo di habere, la cui matrice enuclea l’idea del possesso) significa assumere abitudini e risiedere stabilmente in un certo luogo, un habitat, appunto. E il motore di questo stare al mondo insieme dev’essere un sentimento che unisce, non la costrizione imposta dal lockdown.
Il dato singolare, in questo tempo sospeso, è che la convivenza famigliare, pur nel rispetto delle regole, ha parte attiva nella diffusione del virus. Vogliamo provare a dare al problema un approccio scientifico piuttosto che viscerale? Era chiaro fin dall’inizio della pandemia che combattere il Covid-19 avrebbe richiesto ai governi di monitorare, oltre che contagi e mortalità, i trasporti di massa, le scuole, i luoghi di lavoro e i grandi eventi pubblici. Meno considerato è stato il ruolo giocato dal vivere in famiglia nell’esposizione al rischio. Alcune analisi mostrano una decisa consequenzialità tra i rapporti familiari e il tasso di contagio nel mondo. I tassi di mortalità, al contrario, non sono influenzati da fattori parentali e sociali, ma da variabili come la posizione geografica, la latitudine, il PIL, l’età, la ricettività ospedaliera, etc.
Abbiamo ancora una conoscenza incompleta del Sars-CoV-2, della sua origine, di come si sta evolvendo e di quando si concluderà, e molte incertezze permangono sull’attuazione delle misure di contenimento e sull’intensità del blocco necessario: specialmente nei mesi precedenti alla introduzione del vaccino, autoisolamento e allontanamento sociale, insieme all’uso di mascherine e alla pulizia delle mani, sono stati pressoché gli unici strumenti di protezione. Nel caos delle incertezze, appare tuttavia chiaro che i contatti tra le persone durante i trasporti (treni, autobus e aerei), nelle scuole, nei luoghi di lavoro e nel corso di eventi di massa aumentano significativamente la probabilità di contrarre il virus. Per fermarne la crescita esponenziale bisogna evitare di stare vicino a persone potenzialmente infette; di conseguenza, l’identificazione delle catene di contagio e l’isolamento dei diffusori sono essenziali. Nonostante ciò, è stato sottovalutato – almeno all’inizio della pandemia – che anche il “social capital”, ovvero la rete di relazioni interpersonali che permettono che una società funzioni, le relazioni familiari e il comportamento personale siano fattori cruciali nella diffusione del virus.
Nel recentissimo articolo Family ties and pandemics: Evidence from Covid-19, apparso il 4 febbraio scorso su VoxEU.org, portale online del Centre for Economic Policy Research (CEPR), gli autori (Di Gialleonardo, Marè, Motroni, Porcelli), utilizzando i dati del World Values Survey, hanno misurato l’impatto dei legami familiari considerando tre variabili: l’importanza della famiglia, il rispetto dei figli per i genitori (love-parents) e la generosità dei genitori verso i figli (help-child). I risultati finali confermano una relazione positiva tra la forza dei legami familiari e il tasso di contagio nel mondo; in particolare, l’indicatore principale che guida la correlazione positiva tra i contatti familiari e l’aumento del tasso pro-capite di contagio è la disponibilità dei genitori verso i figli. La medesima ricerca dimostra, invece, che il tasso di mortalità (numero di morti sul numero di casi registrati) sembra indipendente dai comportamenti sociali, compresi i legami familiari. La mortalità è correlata positivamente con altre variabili strutturali, come il reddito, il numero di posti letto negli ospedali, l’aspettativa di vita e l’età media della popolazione. I paesi più avanzati hanno sistemi sanitari più ricchi ed efficienti e stili di vita più sani, che sono fattori chiave per le strategie di tracciamento e trattamento del virus.
Alcune evidenze cliniche in Italia dimostrano che il pranzo domenicale in famiglia è più pericoloso che andare al supermercato. Un “patto tra generazioni”, secondo i ricercatori, è fondamentale. I giovani devono essere “prudenti a scuola, rispettando le regole e mantenendo le misure a casa”. Fino alla diffusa somministrazione del vaccino, le terapie farmacologiche non saranno sufficienti a contrastare la diffusione del Covid-19 se non integrate con le misure sociali che si sono dimostrate efficaci durante gli eventi pandemici passati; quindi, per quanto possibile, i contatti tra anziani e nipoti devono essere limitati, e bisogna proteggere i primi con misure di allontanamento socialmente sopportabili, come indossare maschere, lavarsi le mani e mantenere adeguate distanze di sicurezza. È l’ennesima conferma che i legami familiari risultano essenziali non solo per le questioni economiche e sociali, ma anche per le politiche chiave nella gestione del Covid.
La domanda finale è: la pandemia cambierà le nostre abitudini sociali nel lungo periodo, indebolendo la forza dei legami familiari?
Con riguardo alla correlazione tra parentele e contagi, l’incidenza del contatto familiare tra generazioni nella diffusione del virus appare enfatizzata sin dall’inizio dell’epidemia.
Parenti serpenti, seppure dalla tossicità involontaria?
Effettivamente, era quel che volevasi dimostrare: partendo dai tassi di mortalità sostanzialmente più elevati delle persone anziane infettate dal Covid-19, la ricerca scientifica, già dal 2020, ne sottolineava la maggiore vulnerabilità in alcune regioni europee non solo a causa delle caratteristiche demografiche, ma anche per la prevalenza di forti relazioni intergenerazionali e per la frequenza delle situazioni di coabitazione. La tematica è di estremo interesse, qualora si consideri quanto sia determinante il ruolo dei nonni nel sostegno alla famiglia, specie nei paesi latini.
In controtendenza, uno studio degli economisti Boll e Nikolka, del 2 marzo 2021, Grandparental childcare and Covid-19, indagando le forze trainanti della diffusione del Covid-19, e, in particolare, se il contatto tra nonni e nipoti sia responsabile del potenziale aumento del rischio dell’infezione e della mortalità, è giunto alla conclusione che questo allarme non sia del tutto giustificato, poiché l’assistenza ai bambini da parte dei nonni non è che una delle possibili fonti di contatto sociale. Le ipotesi sulle quali si struttura un’indagine empirica, nell’individuare la correlazione tra certi comportamenti e i tassi di infezione globale osservati nella popolazione anziana, devono concentrarsi anche sulle fonti extra-familiari e su ulteriori variabili. Il potenziale legame tra la cura regolare dei bambini da parte dei nonni e i tassi di infezione da Covid costituisce solo uno dei fattori di osservazione accanto ai tanti non esaminati, per cui, fortunatamente, i risultati della ricerca mettono in dubbio le narrazioni semplicistiche che postulano sempre un legame tra contatto intergenerazionale e tassi di infezione.
La retorica della crisi, che ha investito tutte le aree nelle quali si estrinseca il consorzio umano, non ha risparmiato, come si è visto, l’istituzione familiare. La tendenza a rifugiarsi in una visione individualistica della società, in un contesto caratterizzato dall’insicurezza e dalla transizione, blocca le potenzialità di cui la realtà familiare è portatrice, specie se la famiglia è lasciata a misurarsi solo con se stessa.
Non è mai stato così facile cedere alla tentazione di isolarsi. La forzata clausura è in progress, e soltanto il tempo potrà assottigliarne i confini. Intanto, casa e famiglia, ovvero quel gruppo e quel luogo che spesso restavano marginali, sono ridiventati i materiali epicentri dell’esistenza, il che ci induce a ricostruire equilibri talora smarriti e ci obbliga a confronti a lungo evitati. Ogni confronto, però, può avere esiti tragici, specie in un’era fitta di paure, nella quale sentirsi onnipotenti, immortali, invincibili, risulta arduo quanto azzardare previsioni sul prossimo futuro. Se mai affiora, conscia o inconscia che sia, la premonizione di essere destinati alla sconfitta in questa lotta che rappresenta un unicum nel nostro vissuto, contro virus mutanti che stiamo fronteggiando senza armi risolutive – quindi, nel nostro immaginario, nudi ancorché inermi – tragicamente rispediti nel mondo dell’uomo primitivo, con i suoi problemi semplici, essenziali, vitali: sopravvivere, sopravvivere, sopravvivere.