Panormiti allo stadio - Live Sicilia

Panormiti allo stadio

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Il dialetto siciliano è ricchissimo di parole che testimoniano la nostra secolare tradizione di “dominati”. Si fa il giro del Mediterraneo passando da “mugghieri” a travagghiari”, da “purritu” ad “addumari”. Ma anche quando non parla in dialetto, il palermitano fa spesso scempio della lingua italiana utilizzando in modo improprio verbi, avverbi e sostantivi. Per sorridere un po’ vi racconterò la partita di un frequentatore della Favorita come me: uno della Gradinata. Lo spettatore di Gradinata si sente (e solo qualche volta lo è per davvero) un grande intenditore di calcio. Pertanto si arroga il diritto di mugugnare più degli altri. Abita il più delle volte nella parte della città compresa tra l’asse Strasburgo/Restivo/Sciuti/Terrasanta/Cusmano e quello Carini/Dalla Chiesa/due Marchesi. Si, proprio la strada che da oltre cinquanta anni è sempre “la Via Roma Nuova”. E si esprime indifferentemente in dialetto oppure in “palermitaliano”, idioma tipico di chi usa la lingua di Dante essendo nato e vissuto all’ombra del Monte Pellegrino.

Si incontra con il compare verso le due sotto casa sua. E lo rimprovera per il ritardo giustificato dall’imperdibile “pasta col forno” della suocera: “Compà, ancora a te devo aspettare ?”. In questa frase si noti il tipico misuso (non nel senso ascensionale) di un verbo transitivo come intransitivo. Cercando nel taschino la prima sigaretta della domenica pomeriggio, si accorge di aver dimenticato a casa il portafoglio con l’abbonamento. E allora “ammacca” (che in italiano vuol dire deforma) il tasto del citofono. Alla risposta della figlia Samantha (con l’acca, che senza fa tascio) inverte l’inversione di cui sopra: “Scendimi il portafoglio”. Mentre cammina a passo svelto verso lo stadio, si avvicina un ragazzo in motorino e sciarpa rosanero d’ordinanza che gli pone un quesito in una forma che ne denuncia il settore d’appartenenza: popolaro lato Palermo: “Cucì, chi ura su ?”. La colloquiale apertura di un rapporto di parentela serve al palermitano per stabilire un contatto immediato con l’interlocutore che è tanto più stretto quanto minore è la differenza d’età. Pertanto il “cucì” talora si può trasformare in “mé frà” (pronuncia “me frè”) o, all’opposto, in “mé ziu” come segno di rispettosa reverenza.

Si noti ancora l’uso della “u” al posto della “o” di ora, in cui si configura una delle massime contraddizioni del “palermitaliano”. Non ho mai capito perché quando noi palermitani parliamo in italiano pronunciamo le vocali con le bocche troppo aperte, mentre quando parliamo in dialetto le chiudiamo. “Aoora” diventa “ura”, “maeese” diventa “misi”, “fiaoore” diventa “ciuri”, “scaoonto” diventa “scuntu”. E poiché siamo già allo stadio, “cooornuto” (riferito sapete bene a chi), diventa “curnutu”. Da pronunciarsi rigorosamente con le labbra chiuse “a culo di gallina”.

Dopo la solita “turilla” (dal francese “querelle”) con il villico strisciato che fa finta di ignorare il concetto di “posto a sedere”, il nostro commenta con il compare le ultime dichiarazioni di Zamparini sull’allenatore di turno. E mentre parla ruota la mano davanti all’occhio destro come faceva Luca Toni. Non l’avesse mai fatto: quello della fila sotto, che è iscritto al PEG (Partito Eternamente Grati), si alza di scatto e girandosi pronuncia la domanda che a Palermo suole troncare da anni ogni discussione sulla gestione della squadra: “E picchì ‘un ta pigghi tu ?”. Il compare, stufo come i più della vexata quaestio, si erge subito a paciere: “Amunì, un c’è nienti. Pigghiamuni u’ghiacciuuuolo”. In effetti la prassi consolidata imporrebbe “u’ cafè”, ma siamo pur sempre allo stadio e ci si deve accontentare. La palermitanizzazione del sostantivo che designa quel gelido messaggero di pace conferma la proverbiale generosità del palermitano nell’uso delle vocali. Di essa è mirabile esempio l’applaudito batti e ribatti tra le curve innescato dall’imperativo aspirativo che sorge dalla Nord quando il portiere avversario rinvia: “Fuuuarti”, “Ca’ puuuuampa”, “Chiù fuuuarti”.

Potrei continuare per ore, ma salterò dritto al termine della partita, il cui esito lascerò nel vago. E ciò per esporre le ipotesi di risposta del nostro alla canonica (e, invero, poco interessata) domanda della moglie al ritorno a casa: “Ti sei divertito ?”. Se la partita è andata bene, il nostro si produrrà in un “Abbaistanza”, avverbio di quantità che dovrebbe esprimere un giudizio di sufficienza ma che il palermitano, atavicamente nemico della contentezza, usa per esprimere il massimo della soddisfazione. Se invece la partita è andata male, la risposta sarà: “Completamente”, avverbio di modo che in palermitaliano non esprime integrale assenso, quanto l’esatto opposto: negazione assoluta.

A questo punto molti hanno già pensato: “M’abbuttò”. Errore grave, amici miei. E non perché questa lettura sia di qualche interesse; ma perché in italiano il passato remoto si usa per manifestare la lontananza tra un avvenimento ed il momento in cui ne parliamo. Ed io, in effetti, vi ho appena tediato e me ne scuso. Completamente (italiano).

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