Palermo. Un altro drammatico episodio di cieca violenza, un’altra giovane vita spezzata nel sangue. Abbiamo già scritto mesi fa su questo giornale della paura dei palermitani di uscire la sera (“Palermo come altrove: quella paura di uscire la sera”), perché il tema della violenza non nasce oggi dalla morte assurda di Paolo Taormina, un ragazzo di 21 anni ammazzato perché voleva porre fine a una rissa dinanzi al suo locale.
No, il tema della violenza a Palermo si sta trascinando da lungo tempo e va affrontato superando la naturale rabbia per tentare di cogliere le ragioni profonde dello sconcertante degrado morale cui stiamo assistendo e porre rimedio.
A uccidere Paolo è stato un altro giovane, un ventottenne, sì, un altro giovane e sembrano numerosi i giovani che hanno smarrito completamente il senso della propria esistenza e del valore assoluto della vita. Sono troppi i giovani che coltivano il mito della violenza, l’adorazione di personaggi assai negativi, addirittura di boss mafiosi.
La mafia c’entra? Eccome se c’entra. La mafia non è morta, cambia pelle e si insinua tra le pieghe delle fragilità giovanili, approfitta del balbettio delle istituzioni, sfrutta il disagio di intere periferie abbandonate. Sull’onda più che giustificata dell’indignazione e del dolore si invoca a gran voce la presenza dell’esercito, un dispiegamento visibile delle forze di polizia.
Per carità, condividiamo, controllo e repressione sono due elementi imprescindibili per garantire sicurezza ma sappiamo bene, se ci ragioniamo, che non sarebbe sufficiente, sarebbe come saldare il coperchio sulla pentola in ebollizione, prima o poi esploderà.
Quando la violenza va al di là dei limiti fisiologici – l’essere umano è imperfetto e convive con la perenne lotta tra bene e male – e assume i contorni di una preoccupazione quotidiana e diffusa, fino ad avere paura di uscire la sera o di frequentare determinati luoghi, vuol dire che ormai siamo ben oltre una questione di ordine pubblico: è innanzitutto una questione sociale.
Significa che non è più un’emergenza che riguarda soltanto prefetto, questore e comandanti dei carabinieri, è un’emergenza che coinvolge prioritariamente le istituzioni e la politica, e poi la Chiesa, i sindacati, l’imprenditoria, le organizzazioni di volontariato.
Coinvolge la scuola che, però, non può caricarsi di ogni problematica giovanile, e spesso lo pretendiamo. Coinvolge la famiglia che, però, ha bisogno di supporto se vive in condizioni precarie o di inconsapevolezza.
Occorrono idee per recuperare zone urbane dimenticate (le risorse non mancano), creare centri di aggregazione giovanile, palestre a basso costo, campi sportivi, realizzare programmi contro la dispersione scolastica e a favore di offerte di lavoro con l’aiuto di chi fa impresa.
Occorre uno sforzo corale attraverso l’attività di mediatori sociali che mettano insieme istituzioni cittadine, scuole, famiglie, parrocchie, imprese, associazioni, club sportivi per educare al rispetto della vita e delle persone, del bene comune e dei beni collettivi.
Palermo non può ‘permettersi’ di svegliarsi domani piangendo l’ennesima vittima della ferocia e del vuoto d’anima. Se non vogliamo che accada ancora, dobbiamo convincerci che ognuno di noi, qualunque sia il ruolo ricoperto, deve assumersi le proprie responsabilità. Subito.

