A Palermo infelicissima c’è un tempo da apocalisse. Non si capisce se sia foschia o scirocco. Raramente s’era visto. Una cappa, una bonaccia di sciagure. Come in certi film di pirati, quando il veliero agonizza immobile, ché non c’è più un filo di vento, mentre l’equipaggio boccheggia sotto il sole.
Sdraiati sulla tolda di Palermo infelicissima, assolati e desolati, con la pancia in aria, siamo un equipaggio condannato al declino. La politica al comando pro tempore immagina scenari splendenti di gloria. Tram, parchi parigini, panchine d’oro e d’argento. Tutto sarà compiuto nell’età delle rinascenza. Nel frattempo, boccheggiamo – perché davvero non si respira più – sotto i colpi crudeli di una metereologia che è lo specchio d’acqua immobile della condizione attuale. Di tanto in tanto, gettando occhiate oltre il bordo, ce la prendiamo con l’uomo nero di turno, come se la colpa fosse sua.
La storia più recente lo dimostra. Un immigrato bacia una ragazza, per aggressione e abuso (non c’è da scherzarci, è una violazione dell’intimità, una spaventosa violenza che va condannata). Subito si leva un coro di commenti che incitano alla ghigliottina, al “ributtiamoli a mare”, all’annegamento di ogni particella d’umanità. Basta, appunto, leggere.
Non è una reazione inconsueta. Ormai, crediamo che sarà la faccia feroce a rimettere in sesto il maestrale. Il racconto di un mondo brutto ci invita a diventare brutti, nel recinto di una competizione finale, all’ultimo morso, per l’ultimo tozzo di pane. Ci sfugge la verità che scorre nel suo significato, sotto i lembi delle cronache. Saranno grazia e gentilezza a permetterci di respirare ancora: cose diverse dalla viltà imbelle di chi porge l’altra guancia, di chi si lascia scannare in nome di un peloso solidarismo. Gentilezza e grazia appartengono alla forza, mai separata dalla giustizia. Compongono la libertà e la bellezza di cui ogni essere umano forte, in grado di badare a se stesso, dovrebbe non potere fare mai a meno.
Quel “bacio”, dunque, ci sconvolge oltre ogni limite – un gesto abituale di amore trasformato in cappio, in esecrazione, in dominio, con maggiore colpa desacralizzato – fruga nelle nostre incertezze, scompagina il castello di carte che quotidianamente erigiamo, per vederlo abbattuto un minuto dopo. Ma non è tanto la duplice irrilevanza dei commenti contrapposti a sottolineare il dato interessante. Il punto non è la ripetizione acefala di schemi che si sfidano sul terreno ideologico del luogo comune, tra il risaputo “buttiamoli a mare” e il logoro “accogliamoli comunque”. Il nocciolo sta altrove, consiste nel nostro sentirci estranei a un paesaggio di rovine e di ostilità che strangola accoglienza e tenerezza. Gratti via l’immigrato, trovi il dolore del residente.
A Palermo siamo tutti stranieri, ecco l’orribile scenario. Abitiamo una trincea fantasma che accoglie gli spettri e mette al bando i cittadini, nella macedonia di bestialità che infligge. Ci scopriamo ogni giorno di più deboli, non protetti, apolidi privi di comunità. Non resta che girare col cinturone carico di pistole. Non rimane che sguainare la spada e menare fendenti alla cieca, nel buio, addentando i residui bocconi disponibili di una sofferta appartenenza. L’uomo nero, ‘l’immigrato cattivo’, in un contesto normale, sarebbe un problema di ordine pubblico. Da noi assume i contorni di uno snodo cruciale, al culmine di un patologico senso di debolezza. Che è soprattutto nostro. Non è lui, il titolare dell’ombra aggressiva e sventurata, che ci minaccia. Siamo noi che percepiamo un pericolo decuplicato dalla mancanza di punti di riferimento, dal dissolvimento dei confini, perché all’interno delle mura non c’è un popolo da difendere. Abbiamo paura dell’uomo nero nel suo rivelarsi simile all’uomo bianco: uno straniero, uno sconosciuto, un niente smarrito sulle strade dell’anonimato.
La vicenda infelicissima della morte e distruzione di Palermo è un libro con pagine e colpe equamente distribuite. I palermitani hanno contribuito al risultato con una inemendabile incapacità di ragionare in chiave collettiva. “Io non abito a Palermo, abito a casa mia”. Fu detto ed era un cinico e geniale presagio. La soglia casalinga segna il tratto di competenza del civismo e della coscienza. Dopo, il nulla. Almeno, è stato così per secoli, perché ora ci stiamo accorgendo, nei servizi minimi e nelle massime aspirazioni, come sia impossibile vivere da cittadini senza una città.
I politici hanno contribuito con menzogne, false speranze, infedeltà assortite. Di giorno, amici del popolo. Di notte, aristocratici che non hanno rossore, né decenza, sceriffi di Nottingham, pronti a racimolare denaro e risorse, in cambio di promesse mai mantenute. Non poteva andare diversamente. Ogni traccia di Palermo si è staccata dalla pelle dei palermitani. Ogni speranza ha assunto il gusto del fiele. E a nessuna promessa vogliamo più credere, perché sappiamo che è l’eco di un’altra bugia.
Così, si sopravvive sotto questo sole incandescente, da nomadi, con la paura e con il dolore, in assenza di vento. Così l’uomo nero che non ha patria ci terrorizza, chiama a raccolta il disagio, lo replica per infinite immagini che ne rimandano una sola. Se lo guardiamo bene, se fissiamo il suo volto, ha i lineamenti della nostra solitudine.