Pentiti, mafiosi "traditori" e parenti | I condannati a morte da Cosa nostra - Live Sicilia

Pentiti, mafiosi “traditori” e parenti | I condannati a morte da Cosa nostra

Il blitz in Fondo Pipitone

I verbali di Vito Galatolo svelano i piani di morte della mafia palermitana. Nel mirino parenti, pentiti e "traditori". E lui era pronto ad eliminare la sorella Giovanna che, per prima, ha deciso di collaborare. 

PALERMO – Nel mirino di Cosa nostra non c’erano solo i magistrati. La mafia voleva ammazzare pentiti, figli di pentiti, mafiosi traditori e picciotti che alzavano la cresta. Nelle carte del fermo di Vincenzo Graziano fanno capolino i piani di morte della mafia palermitana.

Alcune persone, secondo il dichiarante Vito Galatolo, quando lo raccontò ai pm, erano ancora in pericolo. Il boss dell’Acquasanta aveva deciso di lavare con il sangue persino l’onta della sorella Giovanna che aveva deciso di collaborare con la giustizia. La voleva morta. Mesi dopo lui stesso ne avrebbe seguito la strada, saltando il fosso.

La lista delle mancate vittime si apre con due collaboratori di giustizia eccellenti: Gaspare Spatuzza e Nino Giuffrè. Il primo con le sue dichiarazioni ha riaperto le indagini sulla stagione delle stragi, smascherando finti pentiti e facendo aprire le porte del carcere per gente sepolta ingiustamente all’ergastolo. Il secondo, Giuffrè, mise nei guai i corleonesi. E corleonese è Matteo Messina Denaro l’uomo che avrebbe voluto la morte dei due pentiti. L’ordine del padrino di Castelvetrano sarebbe arrivato con la stessa lettera con cui dava il via libera all’eliminazione di Di Matteo: “Tornando alla riunione del 9 dicembre, confermo che nella lettera Matteo Messina Denaro – racconta Galatolo – invitava anche a compiere un attentato nei confronti di Spatuzza e Giuffè”.

Per eliminare i pentiti, Galatolo riferisce che si sarebbero serviti di un altro collaboratore, Salvatore Cucuzza, deceduto nel luglio scorso. Galatolo sa “che questi poteva attingere notizie sulle località ove erano allocati i collaboratori di giustizia”. E così “nacque da parte mia il proposito di eliminare mia sorella Giovanna, mentre Vincenzo Graziano propose di uccidere Francesco Onorato, incombenza della quale si sarebbe occupato personalmente”. Galatolo sa pure che nella sua nuova vita da pentito Cucuzza si faceva chiamare Giorgio Altavilla.

E poi ci sarebbero le epurazioni interne a Cosa nostra che Galatolo descrive così: “Prima del mio arresto era in corso l’idea di commettere l’omicidio in danno di Fabio Scimò, uomo d’onore di Corso dei Mille e di tale Salvatore Sorrentino di Pagliarelli. Quest’ultimo in particolare era ritenuto il traditore dei ‘rotoliani’”. Ed ancora: “Sono riuscito a sventare l’omicidio di Raffaele Favaloro che gli uomini del mio mandamento volevano consumare perché era stata messa in giro la voce che lui fosse in contatto con il padre che è un collaboratore di giustizia. Temo che il progetto di questo omicidio e degli altri due possa essere ancora attuale a seguito della notizia della mia collaborazione. Raffaele Favaloro era amico mio e non lo volevo toccato… lui disperandosi mi assicurava che non aveva mai portato notizie da Palermo al padre”.

Stando al racconto del dichiarante, Graziano era pronto ad uccidere pure “Calogero Pillitteri, fratello di Michele, sempre vicino alla famiglia mafiosa dell’Acquasanta ma non uomo d’onore. Tale soggetto non è in buoni rapporti con Vincenzo Graziano, con cui è stato detenuto al carcere di Larino; so che lì si sono presi a parolacce e botte e per quanto accaduto pure prima”. Il riferimento sarebbe alla riscossione dei soldi dell’affitto di una casa di proprietà di Graziano che Pillitteri voleva venissero girati alla famiglia di un mafioso deceduto”.

Per compiere gli omicidi Graziano avrebbe sfruttato l’arsenale a sua disposizione: “Aveva il possesso di armi: in particolare aveva una borsa da palestra con due calibro 9, due calibro 38, una 7,65 con silenziatore e una normale; una bomba a mano, proiettili, una mitraglietta Uzzi nuova fiammante, possedeva anche palette dei carabinieri e distintivi della polizia; le suddette armi (della famiglia dell’Acquasanta) venivano custodite anche da Ignazio Di Maria e Graziano Camillo cl. 72; io ho visto tali armi quando sono uscito dal carcere e loro mi hanno detto che erano pronte per eventuali usi”.


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