PALERMO – È il governatore voluto dai siciliani. Votato dai siciliani. Rosario Crocetta tira fuori quel dato a ogni sospiro. A ogni venticello di polemica politica. “La maggioranza dei siciliani mi ha voluto come presidente”. Vero. Ma il dato, a dirla tutta, viene regolarmente depurato dai numeri sull’astensione e su quelli dell’effettivo consenso. Che si traduce in un fatto incontestabile: a volere Crocetta a Palazzo d’Orleans è stato, sì e no, un siciliano su sette.
Ma tant’è. Sempre meglio del consenso ottenuto dai suoi sfidanti in quell’ottobre del 2012. Crocetta aveva il consenso. Ma adesso non l’ha più. Il governatore che lanciò la sua candidatura addirittura su Facebook, attraendo prima i moderati della “nuova” Udc (quella che avrebbe fatto dimenticare Totò Cuffaro) e solo in un secondo momento il suo partito, il Pd, ha dilapidato la spinta della “novità”. E persino qualche bonus legato al suo passato di amministratore “di frontiera”. E antimafia.
Il Pd arrivò solo in un secondo momento. Presagio di quello che sarebbe stato un rapporto teso e denso di contraddizioni. Liti e lacerazioni, giochi e rimpastini vissuti sulla pelle dei siciliani. A pensarci bene, però, un partito il presidente se lo era fatto da sé. Il Megafono doveva essere inizialmente una “idea”, una “associazione”, ma ha finito per darsi una struttura e una squadra. Un gruppo all’Ars, e tanti candidati, in questi due anni, lanciati sul palco di ogni elezione: dalle regionali alle politiche, passando per le Europee e, appunto, le amministrative. Dove il simbolo del Megafono, ad esempio, ha finito per riempire lo spazio del palco alle spalle del candidato a sindaco di Gela Angelo Fasulo. Su quel palco è salito il governatore, sommerso dai fischi e dalle contestazioni. I soliti contestatori, una sparuta ma chiassosa minoranza, è la giustificazione di rito. E invece no. Quel dissenso si è tradotto in voti. Pochi, pochissimi.
Angelo Fasulo, sindaco uscente di Gela è stato battuto persino dal candidato grillino e dovrà provare a salvarsi al ballottaggio. Una sconfitta in casa, quella di Crocetta, che è la spia più visibile di un evidente crollo del gradimento e di una ancora più palese irrilevanza politica. A guardare bene, gli altri candidati, per così dire, del Partito democratico, cioè del partito di cui fa ufficialmente parte il governatore, non sono stati scelti da Crocetta. Né dalla sua area di riferimento. Anzi, in qualche caso, il Pd siciliano ha tranquillamente ignorato, ad esempio, l’urlo lanciato da Crocetta di fronte alla commissione nazionale antimafia, dove ha puntato l’indice contro la candidatura a Enna di Mirello Crisafulli.
Senza contare il disorientamento, la confusione evidente del “Crocetta politico”. Quello che addirittura si siede allo stesso tavolo di esponenti di Forza Italia vicini a Dell’Utri (!), a ex berlusconiani convertiti, ad autonomisti in fase di riciclo, per lanciare la candidatura ad Agrigento di un candidato che verrà poco dopo sconfessato dal “suo” partito. E che perderà clamorosametne e al primo turno contro Lillo Firetto, ignorato fino a quel giorno anche dalla sua fedelissima “vice”, l’agrigentina Mariella Lo Bello, che oggi si spella le mani per applaudire il sindaco dell’Udc.
E nel Pd, ormai, Crocetta decide poco o nulla. Stritolato nella doppia morsa di renziani e cuperliani. Questi ultimi, “strappando” l’ingresso in giunta hanno di molto depotenziato il governatore. I primi da Roma ormai, dettano al presidente persino il tragitto da compiere per raggiungere il bagno.
E così, Crocetta ormai non sposta voti nemmeno a casa sua, nonostante le potentissime “leve” e i poderosi “rubinetti” offerti dalla gestione di una Regione che in effetti non gestisce più. E il governatore non ha più voce in capitolo nel suo partito, e non a caso, fino a qualche mese fa lo sfidava apertamente: “Se mi ricandido, anche da solo, vinco io”.
Il grido d’orgoglio di un presidente che sa bene di non essere in grado di (ri)farlo. Perché Crocetta non vince ormai nemmeno in casa. E del resto, chiarissimo segnale arrivò alle Europee, quando tutto l’apparato crocettiano, governatore in testa, non riuscì ad accompagnare a Bruxelles nemmeno un assessore in carica come Michela Stancheris. Allora, invece, il candidato più votato fu Caterina Chinnici. Contro la quale, poche settimane prima, alla direzione nazionale del Pd, Crocetta aveva lanciato la sua “fatwa”: “Non può candidarsi perché è stata assessore di Raffaele Lombardo”. Lo diceva negli stessi minuti in cui rilanciava la candidatura di Beppe Lumia, che di quel governo fu uno dei massimi sponsor. E mentre infilava in maggioranza una sfilza di ex autonomisti, ex cuffariani ed ex miccicheiani. Un tentativo disperato per riverniciare, con una mano di trasformismo, la nuova, improvvisa irrilevanza politica del presidente.