Pressioni del Viminale| per la revoca del 41-bis - Live Sicilia

Pressioni del Viminale| per la revoca del 41-bis

Nicolò Amato ai magistrati
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Una discussione politica ci fu. Ma nulla a che vedere con la trattativa. Perché di revoca del carcere duro per i mafiosi si parlò solo nelle sedi istituzionali. In oltre quattro ore di interrogatorio, Nicolò Amato, ex magistrato, ex capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria negli anni delle stragi di mafia, ha cercato di ricostruire, davanti ai pm di Palermo che indagano sul presunto patto tra Cosa nostra e lo Stato, cosa lo spinse a suggerire all’ex guardasigilli Giovanni Conso, con un documento di 75 pagine, la revoca del 41 bis. La ricostruzione cronologica di Amato parte dalla riunione al Viminale, del 12 febbraio del 1993, del Comitato per l’Ordine e la Sicurezza pubblica. Già in quel contesto, in particolare dall’allora capo della polizia Vincenzo Parisi, furono espresse pesanti riserve sull’eccessiva durezza delle misure carcerarie restrittive introdotte d’urgenza tra le stragi di Capaci e via D’Amelio e trasformate in legge dopo l’assassinio del giudice Borsellino. E sempre dal Viminale, ha ricordato Amato, arrivarono “pressanti insistenze” per la revoca dei decreti che imponevano il 41 bis relativamente agli istituti di pena di Secondigliano e Poggioreale. Un contesto istituzionale che rafforzò un convincimento personale di Amato che riteneva il carcere duro uno strumento eccezionale, quindi necessariamente limitato nel tempo. Nessuna anomalia, dunque, nel suggerimento dato a Conso che, a novembre del 1993, dopo le stragi del continente, revocò il 41 bis a 140 mafiosi. “Fu una decisione autonoma, presa in assoluta solitudine”, ha spiegato nei giorni scorsi l’ex ministro all’Antimafia, sostenendo che dietro al provvedimento c’era solo la volontà di porre fine alla stagione di sangue inaugurata da Cosa nostra con l’eccidio di Capaci. Più o meno le stesse cose Amato le disse al pm Gabriele Chelazzi, che già nel 2003, alla Dna, indagava sulle stragi e sulla trattativa. Un’inchiesta che ha precorso i tempi, che portò il magistrato a sentire, oltre a esponenti politici dell’epoca, come l’ex ministro della Giustizia Claudio Martelli, anche l’allora colonnello del Ros Mario Mori, l’uomo che, secondo i pm di Palermo, avrebbe gestito, per conto di parte delle istituzioni, la trattativa tra lo Stato e la mafia. E di Mori, indagato per concorso in associazione mafiosa e sotto processo per favoreggiamento, è tornato oggi a parlare ai magistrati del capoluogo siciliano Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso Vito, altro fondamentale protagonista del patto tra lo Stato e Cosa nostra. “Fu Mori a consigliare a mio padre di nominare Amato suo legale”, ha raccontato ai pm oggi durante l’ennesimo interrogatorio, seguito di pochi minuti a quello dell’ex capo del Dap che, subito dopo le dimissioni dal Dipartimento, a giugno del 1993, si ritrovò a difendere il politico corleonese. “Io e l’avvocato Ghiron – ha detto – restammo perplessi perché mio padre, che era in carcere, aveva già quattro avvocati e il suo processo era pendente in Cassazione, ma lui ci disse di rivolgerci ad Amato perché a consigliarglielo erano stati i carabinieri, in particolare Mori”. La scelta di nominare proprio l’ex capo del Dap che aveva sostenuto la necessità di eliminare il 41 bis, dunque, secondo Massimo Ciancimino, fu suggerita. Mentre per Amato, tornato a vestire la toga, dopo le dimissioni dal Dipartimento, si trattò di una difesa come tante.


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