Quel che resta dell'antimafia - Live Sicilia

Quel che resta dell’antimafia

L'abbraccio tra Manfredi Borsellino e il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella

L'antimafia come la conoscevamo non esiste più. I suoi scandali, le sue bugie, le sue vergogne l'hanno demolita. E adesso?

La polemica
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4 min di lettura

Camminando nella Spoon river dell’antimafia che fu, scorgiamo trazzere disabitate, macerie e crateri. Pezzi abbandonati di cose in buonafede e di altre che – chissà – non lo erano: ruderi comunque. Troppi fatti sono accaduti, perché si continui a fingere di non vedere il panorama della desolazione, con le sue lapidi infrante.

C’era l’antimafia politica, delle carriere protette dal mantello della retorica. In un solo pomeriggio, Manfredi Borsellino, figlio di Paolo, l’ha demolita col suo celebre discorso pronunciato al cospetto del Presidente della Repubblica. “Oggi io intervengo non per commemorare mio padre, cosa che probabilmente molti presenti in quest’aula sanno fare e faranno meglio del sottoscritto, oggi intervengo perché non credevo che la figlia più grande di mio padre, colei con cui viveva in simbiosi e dialogava anche solo con lo sguardo, dopo ventitré anni dovesse vivere un calvario simile al suo e nella stessa terra che lo ha elevato suo malgrado eroe”.

Ecco, nel dettaglio, il ‘calvario’ di Lucia Borsellino, risucchiata dal pozzo nero della Sanità Siciliana: un sistema giuridicamente da valutare, tuttavia già politicamente delineato nei suoi scenari, proprio dalla lettera di dimissioni dell’ex assessore alla Salute del governo Crocetta. Ma in questa orazione civile c’è una scoperta in più: si denuncia il cinismo politico di chi mette avanti lo scintillio del nome altrui per coprire il tanfo. Le parole irrevocabili di Manfredi hanno svelato l’inganno, con la massima deflagrazione possibile. Ora ci sono calcinacci caduti, dove prima c’erano sepolcri sbiancati.

C’era l’antimafia del proclama e della legalità. Sotto la sua coltre si poteva fare o disfare di tutto: tanto chi avrebbe mai controllato? La vicenda di Roberto Helg ha dato un colpo di maglio a quelle fondamenta; uno dei tanti in testa al corteo dei giusti è stato beccato dai carabinieri con la richiesta di mazzetta in bocca. Un atroce paradosso. E tutto si confonde: racket e antiracket, pizzo e anti-pizzo, teoria nobile e praticaccia degli affari. Pure certi proclami del dogma antimafioso sono dunque diventati lapide sbrecciata per la malinconia di chi guarda.

C’era l’antimafia delle agende rosse, sopravvissuta perfino all’abbraccio tra il suo socio fondatore, Salvatore Borsellino – fratello di Paolo – e Massimo Ciancimino, rampollo di don Vito. Si è sgonfiata nell’ultima celebrazione di via D’Amelio, quando i palermitani sono accorsi per applaudire lo spettacolino sul luogo della strage, ma hanno disertato, in corpo e in anima, l’anniversario a cura della nota confraternita. Capita, se si fa violenza alla memoria, se si traccia un arbitrario confine tra buoni e cattivi, se alla speranza si sovrappone una cieca rabbia. La gente non ti segue più, non ti ascolta più. Non ti crede più.

C’era l’antimafia della Trattativa e del Pleistocene che pm onesti – davvero a rischio, non millantatori di minacce – e alcuni furbacchioni a latere concelebravano come se fosse la panacea di ogni male, il lumino acceso in una stanza di impenetrabile oscurità. Infine si è ridotta a triste show. Prima, il saggio tagliente del professor Giovanni Fiandaca ne ha demolito i presupposti giuridici: trattandosi di un processo la cosa ha qualche rilevanza. Poi si è aggiunto un progressivo e inarrestabile disinteresse. La Trattativa non va più sui giornali, se non nelle riviste specializzate in ‘veleni e procure’. Il grande pubblico la snobba e – se proprio deve – la fiction se la guarda in tv.

C’era l’antimafia delle associazioni antiracket, composte da appassionati ragazzi, che hanno cominciato dal basso, col volantinaggio in strada. Ma nessuno, in questa Spoon river, è esente da incidenti di percorso. Un caso di scuola lo ha raccontato il nostro Riccardo Lo Verso, qualche tempo fa: “I conti dell’Antimafia non tornano. Da un lato gli imprenditori Virga, colpiti dal più grande sequestro mai eseguito in Italia, sono stati considerati meritevoli di ottenere un beneficio dallo Stato. Dall’altro, le intercettazioni svelerebbero ‘l’imbroglio’ da loro orchestrato per svestire i panni dei carnefici e indossare quelli delle vittime (…) L’ultimo tassello del piano era entrare a fare parte di un’associazione antiracket. ‘Bisogna stare dentro Addiopizzo perché questa associazione tra un anno, due anni ti faccio vedere – spiegava Carmelo Virga – che gli fanno una legge che tutti i beni confiscati alla mafia li devono… noi dobbiamo fare affari con questi, te lo dico io’”. Ed è vero che proprio i ragazzi di Addiopizzo – artefici di un principio di riscatto che sarebbe ingiusto negare – precisarono di “non avere ritenuto opportuno includere nella rete di consumo critico antiracket le società dei Virga, nonostante gli operatori economici avessero sporto denunce per episodi estorsivi”. La cautela è sempre necessaria, ma se appare così labile il confine tra i presunti cattivi e i sicuramente buoni, chi mai potrà avere fede?

L’elenco sarebbe vasto: può bastare questo per delinare l’abbandono. Macerie su macerie, rudere dopo rudere, calcinaccio dopo calcinaccio. Lo Tsunami punteggiato dalle cronache ha trascinato via quasi tutto nella sua deriva: i buoni e i furbastri, la purezza e la malizia, la faccia pulita di chi ci credeva e l’anima macchiata di chi lucrava. Ora, quel che resta dell’antimafia è un cratere riempito dall’ingenuità dei bambini, gli spiritelli gentili che percorrono le strade di Palermo in occasione degli anniversari e dalla forza di chi continua ad amministrare potere e soldi, non esponendosi mai, per non essere colpito dalle bombe di qualche antimafietta nemica. E rimane un gusto amaro, come di avvelenamento, in bocca. Quello che c’era ieri – in errori, opere e omissioni – era troppo. Ma quello che c’è oggi è  troppo, troppo poco.


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