Sono stati depositati presso la Corte di Cassazione, in attesa dell’esame della Corte costituzionale sulla loro compatibilità con le norme di legge che disciplinano il referendum, i sei quesiti in materia di giustizia proposti su argomenti vari e disparati. A volerne tentare una sommaria sintesi: la responsabilità civile del magistrato, che potrà essere direttamente citato in giudizio da chi ritiene di essere stato leso dalle sue decisioni; la separazione delle carriere tra p.m. e giudici; la limitazione del ricorso alla custodia cautelare in carcere, che (nell’ottica plebiscitaria) sarà consentita soltanto per gravi delitti di sangue o di criminalità organizzata; l’eliminazione del meccanismo automatico della incandidabilità e della interdizione dai pubblici uffici per i condannati con sentenza passata in giudicato ad una pena superiore a due anni di reclusione per delitti non colposi; la modifica del sistema di elezione del CSM; la valutazione dei magistrati da parte (anche) degli avvocati.
Non si vuole qui entrare nel merito delle proposte, se non per rilevare che si tratta di questioni delicate e complesse, che mal si conciliano con la soluzione del taglio gordiano connaturato alla scelta referendaria. A tacer d’altro, non si comprende poi come potrebbe migliorarsi la genetica giudiziaria con una manovra a tenaglia che da un lato assimila il p.m. ad un superpoliziotto, come tale inevitabilmente soggetto alle lusinghe ed alle pressioni del potere politico, e dall’altro sottopone il giudice al timore di poter in ogni momento essere citato in giudizio da chi (magari un potente o una multinazionale) si è sentito leso da una decisione. Se a questo si aggiunge il sostanziale divieto di custodia cautelare per i colletti bianchi e l’eliminazione del divieto di elettorato passivo per i condannati, ecco che meglio si delinea il quadro di una attività giudiziaria effettiva (con pena eseguita e non solo dichiarata) che riguarda soltanto la devianza marginale (comune e di tipo mafioso), e che persegue concretamente (con pene effettivamente applicate) la minutaglia di strada: furti di auto, minuto spaccio e rapine nelle farmacie.
Ora, una giustizia che persegue concretamente solamente i reati a forma elementare è una giustizia che ieri avremmo definito di classe. Oggi, giuridicizzando il linguaggio, diremo che è in contrasto con il principio di obbligatorietà dell’azione penale: una giustizia che collide con il valore dell’eguaglianza, nel senso che, fra tutti gli autori di reati, ne persegue soltanto una ristretta tipologia, e per giunta la meno pericolosa.
Naturalmente, queste proposte traggono alimento (di più: sono state rese concepibili) dall’attuale situazione e si fondano sulla ricorrente accusa mossa alla magistratura di avere ampliato a dismisura il proprio campo di azione e di abusare del proprio potere per acquisire vantaggi personali e di categoria e, ipotesi ben più grave, per condizionare aspetti fondamentali della vita del Paese. In proposito, va premesso che di abusi ce ne sono stati e, purtroppo, in un sistema non perfetto ma migliorabile come tutte le umane cose, ce ne saranno. E sono proprio le cronache giudiziarie a darne conferma (il che indica, comunque, lo sforzo della stessa magistratura per fare pulizia al suo interno).
Credo, però, che ricondurre a banali smanie di protagonismo o, peggio, a un raffinato disegno strategico protratto per decenni, un fenomeno rilevante come l’esuberanza interventistica dei magistrati nella vita politica, economica e sociale del Paese, sia un eccesso di semplificazione. E, quel che più importa, una tesi errata nella sostanza.
Cominciamo col dire che il fenomeno non è solo italiano, ma caratterizza il mondo occidentale nel suo complesso. L’esito delle elezioni presidenziali americane del 2000 fu deciso dalla Corte Suprema che, nello stato determinante della Florida, dispose il riconteggio manuale dei voti, al termine del quale Bush prevalse su Al Gore. Più recentemente, la magistratura inglese ha annullato la sospensione dei lavori del Parlamento di Westminster deciso dalla Regina su richiesta del premier Boris Johnson.
Le cause profonde della dilatazione dell’intervento giurisdizionale sono comuni a tutte le democrazie avanzate, perché le risorse disponibili non sono sufficienti a far fronte alla richiesta crescente per il soddisfacimento di esigenze, individuali e collettive, percepite ormai come diritti che giustificano il ricorso al giudice. Nella stessa direzione spinge la diminuzione del senso di appartenenza a una comunità in cui ai diritti degli uni corrispondono i diritti degli altri, che li limitano creando dei doveri.
In queste condizioni la politica non riesce più a dettare regole chiare, ma si limita a dare indicazioni di massima, non di rado incerte e tra loro contraddittorie, per non scontentare nessuno degli attori e degli interessi in gioco. In definitiva, il potere legislativo lascia l’interpretazione e l’applicazione concreta al giudice. Il quale, peraltro, si trova ormai prigioniero in un labirinto legislativo, perché alle norme statali si aggiungono e sovrappongono, non sempre coerentemente, quelle locali, quelle europee e quelle che derivano da convenzioni internazionali. La vicenda dell’Ilva di Taranto, nella sua drammaticità, è emblematica di questo groviglio, così come lo sono le questioni relative al fine vita, alla maternità assistita o surrogata ed al diritto alla tutela della salute e dell’ambiente a fronte delle esigenze della produzione ed occupazione.
In questo contesto, la certezza e la prevedibilità delle decisioni diventa un mito e diventa facile – ma anche ingiusto e mistificante – riversare sempre e per ogni caso la colpa sui magistrati. Sulla dilatazione del ruolo del giudice incide poi la convinzione che attraverso la sanzione penale, che dovrebbe essere l’extrema ratio, si possano risolvere i problemi sociali, evitando alla politica di assumere decisioni scomode, con il conseguente rischio di perdere consensi. Il legislatore, spesso inseguendo o addirittura favorendo l’emotività sociale, aumenta le pene e moltiplica le figure di reato, creando così ulteriori spazi di intervento della magistratura.
Naturalmente, aver delegato alla magistratura compiti così importanti, ma insieme così difficili e insidiosi (non solo per l’incolumità, ma anche per le lusinghe e le relazioni pericolose di cui corrotti e mafiosi sono maestri), ha inevitabilmente provocato episodi di degenerazione e persino una questione morale, sulle cui dimensioni si confrontano, ovviamente, opinioni differenti. Questa forza, quest’ampiezza di compiti e la dotazione dei penetranti strumenti per soddisfarli, ha finito per provocare un’opposizione crescente di settori sempre più ampi della società. Non solo perché la decisione del magistrato scontenta sempre almeno una delle parti in causa, ma soprattutto perché egli deve oggi intervenire in materie che vedono in gioco interessi enormi e, come detto, non regolamentate in modo chiaro e specifico. In altri casi, gli è richiesta la ricostruzione di fatti e vicende di estrema complessità, anche lontane nel tempo, ma quasi sempre con forti richiami a sensibilità attuali, accese, divisive. Le decisioni assunte presentano così, inevitabilmente, margini di discrezionalità e opinabilità che rendono più frequenti le discrepanze fra le diverse fasi previste dal processo e inevitabili le critiche, anche violente, al di fuori di esso.
Il risultato è oggi davanti agli occhi di tutti: viene messa in dubbio l’imparzialità dei magistrati, la cui credibilità è invece un bene prezioso per la democrazia, perché una collettività che non crede nella giustizia è destinata a cercarla altrove (protezioni politiche, potentati economici, corporazioni, associazioni occulte, quando non criminali), creando le premesse per la disgregazione civile. Una meditata riforma è pertanto necessaria. La soluzione non può essere quella liscia e brutale del referendum: quando un problema complesso sembra avere una soluzione semplice, è il segno che qualcosa sfugge.
Francesco Puleio